E la chiamavano casta… La crisi del giornalismo

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Sempre più precari, sempre meno retribuiti, sempre meno donne, sempre meno ingressi nel mondo del lavoro: è questa la fotografia della professione giornalistica che emerge dalla ricerca, presentata nei giorni scorsi a Roma, dell’Osservatorio sul giornalismo dell’Agcom, l’autorità per le garanzie nella comunicazione.  Una crisi generale che ha colpito anche i grandi gruppi editoriali, in affanno nell’adeguarsi alle nuove tecnologie digitali,  costretti a mettere in regime di solidarietà i propri giornalisti. Un mercato del lavoro, soprattutto nella carta stampata, che ad oggi sembra essere chiuso, sbarrato. Dal 2008 al 2015 l’editoria ha perso il 50 per cento del fatturato, con le copie cartacee passate da 5,4 a 2,9 milioni al giorno.

Il presidente dell’Agcom, Angelo Marcello Cardani, non a caso ha sottolineato come le copie cartacee siano diminuite di 300mila unità nell’ultimo anno, formalmente compensate da altrettante nuove copie digitali. “Il rapporto tra copia digitale e cartacea è complesso. È un modello di business – ha denunciato Cardani – che è arrivato probabilmente al capolinea senza che sia stato sostituito da un altro in modo chiaro e definitivo”.

Ed infatti, solo per citarne alcuni,  Il Sole 24 ore giornale di Confindustria da tempo è in regime di solidarietà (i giornalisti lavorano meno ore, vengono pagati meno dall’editore e il reddito decurtato viene coperto dall’Inpgi). Stessa cosa per il Corriere della Sera che ha cambiato anche editore essendo stato acquistato da Cairo. Stessa sorte per lo storico quotidiano di Torino, La Stampa è stata acquistata dall’Espresso.  Il Giornale di Sicilia ha chiuso i battenti, l’Unità dopo varie chiusure ed aperture annovera negli ultimi tempi scioperi e cambi di direzione multipli. Le testate di Caltagirone, Il Messaggero in testa, hanno subito tagli. Ed infine,  nonostante lo studio targato Agcom sostenga che le tv e le radio stiano meglio, è di questi giorni lo sciopero dei giornalisti di Sky perché sono stati annunciati spostamenti di redazioni e ridimensionamento degli organici.

E se la mancanza di sbocchi professionali preoccupa, sul fronte redditi non va certo meglio. Secondo lo studio del gruppo di lavoro LSDI (Libertà di stampa diritto all’informazione), le differenze tra un giornalista dipendente e un free lance sono abissali. Il reddito medio dei giornalisti dipendenti è superiore di 5,4 volte a quello della “libera professione” (60.736 euro lordi annui contro 11.241)  e 8 lavoratori autonomi su dieci (l’ 82,7%) dichiarano redditi inferiori a 10.000 euro all’anno.

Una situazione che per il Presidente dell’Agcom “È pericolosa: il 40 per cento dei giornalisti attivi guadagna meno di 5mila euro l’anno. Inoltre, la differenza di genere si aggrava con la crisi e le donne tendono con più difficoltà a raggiungere posizioni di vertice”.

E Cardani sottolinea un altro aspetto non di poco conto: “Le istituzioni devono valutare molto attentamente i problemi dei giornalisti: invecchiamento degli addetti, crescente precarizzazione e fragilità economica. In un terreno così, le forme di intimidazione tendono a crescere e lasciare un segno più forte. Dall’indagine emerge un effetto dissuasivo che produce effetti sulla libertà di informazione. Avere un’informazione libera è una precondizione per un Paese funzionante e degno di questo nome”.

Cosa fare allora? Dal Sindacato all’Autorità garante per la comunicazione, dall’Istituto di previdenza ai ricercatori,  sono le Istituzioni e gli editori che devono fare un passo avanti. La crisi va affrontata con politiche che sappiano rilanciare il settore.

Il Governo sembra rispondere. Il Consiglio dei Ministri ha infatti dato il via libera ai decreti attuativi sui contributi alle imprese editrici di quotidiani e periodici e alle emittenti locali. Una boccata di ossigeno ma non per tutti, come sottolinea la Presidente dell’Istituto di previdenza dei giornalisti, Marina Macelloni: “Il decreto sui contributi diretti alla stampa è un passaggio positivo per il settore dell’editoria in crisi strutturale ormai da molto tempo. È positivo che il Governo abbia confermato il sostegno pubblico che è fondamentale per garantire il massimo del pluralismo dell’informazione. Allo stesso tempo è giusto, e o chiedevamo da molto tempo, che si ridefinissero i criteri e i requisiti che le aziende devono avere per accedere al contributo. Per l’Inpgi è importante, in un momento come questo, che si faccia di tutto per evitare chiusure e fallimenti di aziende editoriali e quindi ulteriori perdite di posti di lavoro”.

La parola d’ordine quindi non può che essere “incentivi per nuove assunzioni”. Ed infatti, grazie agli  sgravi contributivi concessi dal fondo presso la Presidenza del Consiglio, nel 2014 sono state 200 le nuove assunzioni – di cui la maggior parte a tempo indeterminato. A cui si sommano poi le 607 assunzioni generate dagli sgravi deliberati dal Cda dell’ Inpgi per il triennio 2011-2014 e quelle che si avranno dalle 1.007 domande di assunzione con sgravio che erano state presentate all’ Ente di previdenza alla data del 31 dicembre 2015.

“Ma – come sottolinea la presidente dell’ Inpgi Marina Macelloni nella sua relazione al bilancio 2015 – ‘’la fase recessiva del settore non può dirsi affatto conclusa’’.

ALCUNI DATI

Osservatorio Agcom

I soggetti che, nel 2016, hanno svolto un’attività giornalistica in Italia, anche in via non esclusiva – come dipendenti, collaboratori o freelance – siano 35.619 di cui 9.572 iscritti alla Gestione Principale (Inpgi 1), 13.112 iscritti alla Gestione Separata (Inpgi 2) e 12.935 misti (iscritti ad entrambe le Gestioni), comprensivi anche dei pensionati, disoccupati o cassaintegrati. Tale dato risulta essere in diminuzione del 3,9% rispetto a quanto rilevato nel 2014.

La distribuzione dei giornalisti attivi in Italia per fasce di età mostra un graduale e costante invecchiamento della forza lavoro (l’8% della popolazione attiva ha più di 60 anni, mentre era pari solo al 2% nel 2000).

La dinamica della ripartizione dei giornalisti per reddito rivela come, negli ultimi quindici anni, si sia assistito a un significativo aumento delle fasce reddituali più basse (al di sotto dei 35mila euro); in particolare, nel 2015, la fascia di reddito al di sotto dei 5.000 euro da attività professionale rappresenta oltre il 40% dei giornalisti attivi (addirittura il 55% se si considerano i soggetti con redditi inferiori a 20mila euro), testimoniando la presenza di una parte, oramai maggioritaria, di soggetti che lavorano in modo parziale e/o comunque precario.

Si situano nella fascia di reddito più bassa (fino a 5mila euro) il 44% delle donne e il 41% degli uomini, mentre, all’opposto, nella fascia più alta, con un reddito superiore ai 95mila euro, si trovano il 6% delle donne e l’11% degli uomini.

Le giornaliste sono prevalentemente soggette a condizionamenti di natura economica, con particolare gravità nel caso della precarietà (il 41% delle donne rispetto al 33% degli uomini), mentre gli uomini sono in maggior misura oggetto di intimidazioni, minacce, aggressioni e azioni legali

 

LSDI (Libertà di stampa diritto all’informazione)

Il reddito medio dei giornalisti dipendenti è superiore di 5,4 volte a quello della ‘’libera professione’’ (60.736 euro lordi annui contro 11.241), 8 lavoratori autonomi su dieci (l’ 82,7%) dichiarano redditi inferiori a 10.000 euro all’anno.

I rapporti di lavoro registrati nel segmento dei quotidiani fra il 2011 e il 2015 sono calati di 1.151 unità, passando da 7.326 a 6.175, con una diminuzione del 15,7%.

Nel 2015 si è ulteriormente accentuato il declino complessivo dei nuovi iscritti (Inpgi1 e Inpgi2): solo 1953 rispetto ai 3.247 nuovi iscritti del 2000, con un decremento del 40%.