Almalaurea. I laureati e il mito del lavoro fuori confine

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Ragazzi che migrano e che sono l’altra faccia della medaglia di un sistema, quello italiano, che investe sulla formazione dei giovani ma non riesce ancora a garantirgli il futuro che vorrebbero… A sostenerlo i due Rapporti targati Almalaurea – Profilo dei laureati e Condizione occupazionale – che hanno preso in esame rispettivamente 276mila laureati di 74 università, nel 2017 (157mila di primo livello, 81mila magistrali biennali e 36mila magistrali a ciclo unico) e 630mila laureati di primo e secondo livello degli anni 2016, 2014 e 2012 contattati, a uno, tre e cinque anni dal conseguimento del titolo.

Con dati positivi e dati negativi.

Per quanto riguarda le immatricolazioni, gli atenei italiani stanno per mettersi alle spalle la crisi che ha visto una contrazione del 14,1% dal 2003/04 al 2016/17: 50mila iscritti in meno. Il Paese fatica quindi ad abbandonare il penultimo posto in Europa per numero di laureati, ma inizia a risalire la china: dal 2014 si registra una ripresa, che ha toccato il picco più alto nel 2016/17: +7,7% di iscritti rispetto al 2013/14.

Ma… Ragazzi che migrano, dicevamo, perché secondo lo studio uno su quattro, dal Sud Italia, opta per atenei a latitudini più settentrionali. Mentre la quasi totalità degli studenti del Nord rimane nella medesima area geografica. E c’è un altro dato interessante e questa volta riguarda le famiglie.

A spostarsi – dice il rapporto – sono più frequentemente i ragazzi che hanno un background socio-culturale più elevato: il 36,1% di chi ha compiuto migrazioni di lungo raggio ha almeno un genitore laureato, contro il 28,3% di chi è rimasto nella medesima ripartizione geografica.  Poco propensi ad andare all’estero per studiare, gli studenti italiani sono più inclini a cercare lavoro fuori dai confini una volta conseguito il titolo, ritenendo che fuori dai confini italiani sia il reddito sia le opportunità siano decisamente migliori.

Se infatti migliorano i tassi di occupazione misurati a un anno e a cinque anni dalla laurea, sono anche in aumento i contratti “non standard”, mentre diminuisce il lavoro a tempo indeterminato. Le retribuzioni restano sostanzialmente al palo. E il livello di soddisfazione per gli studi fatti “migliora, ma il dato resta basso per oltre la metà dei laureati”i.

Nel dettaglio, la disponibilità a lavorare in un altro Stato europeo è dichiarata dal 48,4% dei laureati (era il 49,8% nel 2016 e il 38,5% nel 2007); il 33,7% è addirittura pronto a trasferirsi in un altro continente. Si rileva una diffusa disponibilità ad effettuare trasferte anche frequenti (27,3%), ma anche a trasferire la propria residenza (50,8%). Solo il 2,8% non è disponibile a trasferte.

Ed infine, per gli studenti intervistati, programmi Erasmus e altre esperienze riconosciute dal corso di studi, stage, tirocini curricolari, lavoretti tra un esame e l’altro, oltre a rappresentare esperienze positive (è il giudizio del 69,5%), aumentano le chance di trovare lavoro.

“Nello specifico – si legge nel rapporto – le esperienze di studio all’estero con programmi europei aumentano le chance occupazionali del 14,0%, i tirocini del 20,6% e aver lavorato occasionalmente durante gli studi del 53%. Inoltre, trascorrere un periodo di studio all’estero o svolgere un tirocinio curriculare, a parità di condizioni, non solo non comporta ritardi nella conclusione del percorso universitario, ma influenza positivamente la probabilità di ottenere elevate votazioni alla laurea”.