Ue. Rapporto adeguatezza pensioni. Italia, sistema disomogeneo

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È stato pubblicato, nei giorni scorsi, il quarto Rapporto sull’adeguatezza delle pensioni 2021 (PAR) che il Comitato per la protezione sociale (SPC) redige ogni 3 anni, in collaborazione con la Commissione europea (DG EMPL).

Il Rapporto presenta un’analisi comparativa tra gli Stati membri sulle forme pensionistiche in atto e previste per il futuro, i relativi redditi dei pensionati, analizzando inoltre i cambiamenti futuri e le sfide che dovranno essere affrontate in tutta l’UE. Lo studio, inoltre, mira a promuovere il dibattito politico sia sulle riforme possibili sia sulla sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici tenendo sempre conto dell’adeguatezza delle prestazioni, in linea con il principio n. 15 del Pilastro europeo dei diritti sociali che promuove il diritto al reddito e alle pensioni di vecchiaia e l’adeguatezza di quest’ultime. La stessa Unione europea sostiene le azioni introdotte dagli Stati membri proprio per garantire l’adeguatezza del reddito pensionistico.

La relazione si compone di due volumi. 

Il volume I è dedicato a un’analisi comparativa dell’adeguatezza delle pensioni nell’UE e esamina l’attuale tenore di vita degli anziani, prosegue con una panoramica delle recenti riforme pensionistiche, analizzando le principali sfide per l’adeguatezza delle pensioni future e conclude esaminando come i sistemi pensionistici condividono rischi e risorse tra uomini e donne e tra i diversi gruppi di reddito e come si sta evolvendo il finanziamento pensionistico.

Il Volume II (profili dei paesi) fornisce una discussione dettagliata degli sviluppi in ciascuno dei 27 Stati membri.

Le principali evidenze per il nostro Paese mettono in luce la disomogeneità della sicurezza economica nella vecchiaia. Il sistema pensionistico obbligatorio si dimostra efficace nel garantire il mantenimento del reddito per i pensionati medi, ma la disuguaglianza del reddito pensionistico secondo il Rapporto è notevole e in espansione, la protezione contro la povertà appare inadeguata, come pure le rigide condizioni di ammissibilità che includono clausole regressive.

Se la quarta ondata di riforme delle pensioni nel 2016-2019 ha iniziato ad affrontare alcune di queste sfide, sia rafforzando gli elementi di solidarietà per una migliore protezione contro la povertà, sia facilitando il pensionamento anticipato attraverso una sovrabbondanza di opzioni di prepensionamento temporaneo, tuttavia, il processo di riforma non è stato completato con la introduzione di nuove condizioni di ammissibilità al pensionamento durevoli, sostenibili e (soprattutto) eque.

I soggetti maggiormente esposti a una povertà pensionistica sono i lavoratori autonomi, quelli con carriere interrotte e le donne. Secondo i dati più recenti, nel 2018, un notevole 36,3% dei pensionati ha ricevuto un reddito pensionistico inferiore a 1000 euro al mese: più in dettaglio, il 12,2% ha ricevuto un reddito pensionistico inferiore a 500 euro al mese, il 26,4% ha ricevuto un reddito pensionistico tra 500 e 1000 euro al mese, il 39% ha ricevuto tra 1000 e 2000 euro al mese, mentre il 24,7% si colloca nella fascia superiore sopra i 2000 euro al mese (Istat, Condizione di vita dei pensionati 2018, ed 2020).

Le donne sono sovra-rappresentate nelle fasce di reddito pensionistico inferiori a 1500 euro al mese. In effetti, quasi il 70 % delle pensionate (67,8 %) percepisce un reddito pensionistico al di sotto di quest’ultima soglia, rispetto al solo 46,2 % degli uomini. Allo stesso modo, l’importo medio della pensione di vecchiaia per le donne è del 36,7% inferiore a quello degli uomini. Come recentemente sostenuto anche dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT, 2020), la ragione principale della condizione svantaggiata delle pensionate italiane, se confrontata con gli uomini, riguarda la posizione marginale della maggior parte delle donne italiane nel mercato del lavoro: i tassi di occupazione femminile sono stati tradizionalmente (e sono tuttora) bassi,  il valore mediano degli anni di carriera lavorativa è di 25 per le donne contro i 40 degli uomini – e circa il 30% delle donne italiane ha un impiego da meno di 14 anni.

In questo contesto, l’assegno sociale di vecchiaia costituisce la principale componente redistributiva. Finanziato dalle entrate generali, fornisce assistenza sociale forfettaria alle persone povere dai 67 anni in su. Pur importante per una delle tre dimensioni chiave dell’adeguatezza delle pensioni (la funzione anti-povertà), l’importo annuale (5977 euro) di questo schema non è in grado di sollevare effettivamente i beneficiari dalla povertà (soglia di povertà assoluta calcolata dall’ISTAT, pari a 780 euro al mese nel 2019). Secondo il Rapporto, l’istituzione della pensione di cittadinanza dal 2019 potrebbe contribuire a ridurre l’ampia quota di pensionati a basso reddito, prevedendo – a seguito di una prova dei mezzi – una prestazione mensile di 630 euro – più 150 euro come indennità di alloggio – per una persona singola residente in Italia da almeno 10 anni, di età pari o superiore a 67 anni, con un reddito annuo equivalente inferiore a 9360 euro.

Per migliorare l’adeguatezza nel lungo periodo, pur continuando a garantire la sostenibilità fiscale, la Commissione e il Comitato per le politiche sociali indicano l’opportunità di adottare misure per rafforzare la capacità redistributiva e solidaristica dei regimi pensionistici obbligatori – rivedendo sia le formule pensionistiche che le condizioni di ammissibilità secondo i principi di equità – e integrare meglio questi ultimi con i regimi integrativi a capitalizzazione.