Welfare aziendale e piattaforme digitali

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“Per evitare di alimentare un processo di disintermediazione tra i bisogni e gli utenti dei servizi, le piattaforme digitali dovrebbero venire affiancate da forme di sostegno integrative che si concretizzano in luoghi fisici”, inizia così l’articolo, pubblicato sulla rivista Solidea a firma Valentino Santoni, che affronta due grandi temi: il welfare, soprattutto aziendale, e la digitalizzazione.

“Grazie alla diffusione delle Information and Communications Technology (ICT) – scrive l’autore – nel corso degli ultimi anni sempre più spesso lo strumento delle piattaforme digitali ha interessato anche il mondo del welfare. Attraverso questi portali molte persone possono infatti conoscere e avere accesso in maniera semplice a prestazioni di natura sociale con pochi clic. In questo modo si sono generati dei veri e propri marketplace digitali che riescono a intermediare tra domanda e offerta, e quindi mettere in relazione i fornitori di servizi con i potenziali beneficiari. Queste piattaforme quindi non producono beni e non erogano servizi ma, piuttosto, mettono altri attori nelle condizioni di effettuare uno scambio: organizzano le informazioni necessarie, costruiscono un ambiente che consenta l’incontro tra domanda e offerta e creano le necessarie pre-condizioni fiduciarie”.

Per Santoni mai come il welfare aziendale ha bisogno di piattaforme digitali. Basta vedere il numero dei neo nati provider che “a disposizione delle imprese dei portali per consentire ai dipendenti di utilizzare il premio welfare annuale. I lavoratori possono così decidere in autonomia di quali benefit e servizi usufruire e, compatibilmente con quanto previsto dalla normativa, secondo quali modalità: ricevere il rimborso del costo dei servizi acquistati, fruire di voucher servizi che permettono di “pagare” direttamente le prestazioni, fare versamenti aggiuntivi dei contributi previdenziali e sanitari, ricevere buoni acquisto”.

Piattaforma che devono però rispettare alcuni canoni, la semplicità della navigazione e dell’uso innanzitutto e non per ultimo la capacità di creare profitto.

“La platform economy e la digitalizzazione- scrive sempre l’autore –  stanno quindi rappresentando un’interessante opportunità di investimento e crescita economica per molte organizzazioni – anche del privato sociale – che si sono potute così sviluppare, creando anche nuova occupazione. Al contempo diversi studi (Venturi e Zandonai 2016) evidenziano che le piattaforme hanno in molti casi facilitato la selezione e la fruizione di prestazioni di welfare da parte degli utenti dei servizi. In particolare, grazie alla sempre più capillare diffusione di pc e smartphone e alla crescita delle competenze necessarie al loro utilizzo, questi strumenti raggiungono un bacino di potenziali utenti sempre maggiore”.

Ma non è oro tutto quello che luccica. Infatti se andiamo avanti nel leggere l’articolo c’è un paragrafo dedicato proprio a quello che l’autore definisce dis-intermediazione. Leggiamo.

Nonostante le opportunità offerte dalla platform economy, è importante analizzare da vicino la funzione di intermediazione svolta dalle piattaforme. Data la diffusione di questi strumenti tecnologici in campo sociale appare rilevante interrogarsi sulla qualità e sulle conseguenze del processo di matching fra domanda e offerta in cui si inseriscono e che promuovono.

Secondo alcune ricerche (Razetti e Santoni 2019), infatti, l’utilizzo di strumenti come le piattaforme rischia di alimentare un processo di disintermediazione tra i bisogni e gli individui/utenti dei servizi.

Come sottolineato nel Lessico del XII secolo edito da Treccani, per disintermediazione si intende l’ ”eliminazione di intermediari dalla catena distributiva o dal processo di acquisizione di beni o servizi, in modo che l’offerta e la domanda possano incontrarsi direttamente”, soprattutto grazie al ricorso agli strumenti informatici. Nel campo del welfare, la visione alla base di questo processo è che l’utente che utilizza una piattaforma online è considerato come il miglior giudice delle proprie scelte: la piattaforma renderebbe accessibile una vasta gamma di possibili risposte che il fruitore deve poi selezionare in funzione delle sue specifiche necessità e in vista della massimizzazione del benessere proprio e della propria famiglia. Ma come avviene il processo di selezione dei servizi? Quali fattori – esogeni ed endogeni – condizionano tale scelta? I fruitori delle prestazioni trovano risposte soddisfacenti? Queste sono solo alcune delle domande che meriterebbero di essere approfondite. I rischi potrebbero infatti essere molteplici e riguardare ad esempio la scarsa capacità di utilizzo delle tecnologie da parte dell’utente, il digital divide, la scarsa capacità di leggere in maniera autonoma i propri bisogni sociali e quindi di individuare le risposte più adeguate, la difficoltà nel comprendere i “contenuti” delle prestazioni.

Vi è quindi il rischio che l’incontro tra domanda e offerta nelle piattaforme sia affidato agli utenti, in un processo di negoziazione tra le parti mediato attraverso l’algoritmo, il quale risulta essere spesso opaco e non comprensibile per l’utente.

Cosa fare?

Per Santoni “le piattaforme del welfare per distinguersi dovrebbero incentivare alcune strategie. Innanzitutto dovrebbero avere come proprio core-business la risposta ai bisogni sociali delle persone: dovrebbero così cercare di mettere al centro della loro azione il ciclo di vita delle persone e quindi i loro bisogni che – in base all’età e alle caratteristiche degli utenti – mutano costantemente. Inoltre, al fine di ridurre il più possibile il rischio di dis-intermediazione, è cruciale pensare a forme di sostegno integrative che si concretizzano in luoghi fisici, come ad esempio i centri informazione. All’interno di questi luoghi potrebbero poi operare professionisti del settore dei servizi – assistenti sociali, operatori del mondo cooperativo, esperti di società private – che svolgerebbero una funzione di lettura e inquadramento dei bisogni, ricerca delle risposte adeguate e, più in generale, orientamento e counselling. Questo renderebbe possibile coniugare dimensione digitale e analogica, certificando quindi il ruolo sociale delle piattaforme di welfare”.