A sostenerlo il “VII Rapporto sulle libere professioni in Italia – anno 2022”, curato dall’Osservatorio libere professioni di Confprofessioni, coordinato dal professor Paolo Feltrin, e presentato a Roma nella Sala del parlamentino del Cnel.
«Il Rapporto sulle libere professioni 2022 è lo specchio fedele di una realtà economica che mostra una forte resilienza di fronte alle turbolente oscillazioni congiunturali e a una politica che fino a oggi non ha saputo intercettare il valore del lavoro professionale nei meccanismi di crescita della nostra economia. Assistiamo infatti a una sorta di strategia difensiva da parte dei liberi professionisti che, per difficoltà oggettive o a causa di un contesto normativo poco incentivante, ritardano la partenza della ripresa del settore nel suo complesso», commenta il presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella. «In questo contesto, i liberi professionisti italiani guardano al nuovo corso politico del Paese con estrema attenzione, nella prospettiva di trovare risposte concrete per il mercato del lavoro e per lo sviluppo economico del Paese. Il declino demografico, l’occupazione giovanile e la crescita dimensionale degli studi professionali rappresentano fronti aperti sui quali la politica può e deve intervenire per rendere più attrattivo e competitivo il nostro settore, attraverso un auspicato confronto e una dialettica costruttiva con gli organismi di rappresentanza delle professioni».
I DATI
Con oltre 1,4 milioni di unità l’Italia si conferma il Paese con il maggior numero di liberi professionisti in Europa, registrando negli ultimi 10 anni una crescita costante frenata solo dalla pandemia che, tra il 2018 e il 2021, ha causato la chiusura di circa 24 mila attività professionali e limitando le perdite del lavoro indipendente che negli ultimi quattro anni ha perso 343 mila posti di lavoro. L’onda lunga dell’emergenza Covid e l’incertezza di un quadro economico complesso ridisegnano la geografia e le caratteristiche demografiche della popolazione professionale in Italia. A farne le spese sono soprattutto i professionisti datori di lavoro che calano di quasi il 13% soprattutto nelle regioni del Nord Ovest e del Centro; tuttavia, i saldi occupazionali si mantengono sempre in positivo, trainati dalla crescita dei contratti a tempo indeterminato.
E se la crisi colpisce soprattutto le regioni del Centro (-3,7%) e del Nord (-2,8%), nel Mezzogiorno si assiste a un aumento del 2,6% del numero di professionisti, trainato dal balzo in avanti delle donne che nello stesso periodo registrano un incremento del 4,6%. In calo anche i redditi dei professionisti iscritti alle casse di previdenza private, che segnano una flessione del 2%, con punte che arrivano fino al 6% tra avvocati, periti industriali e architetti; in controtendenza, si muovono i consulenti del lavoro che vedono incrementare i loro redditi del 26,5%. Nelle professioni ordinistiche permane tuttavia un ampio divario reddituale di genere. Ancor più preoccupanti le prospettive del mercato del lavoro negli studi professionali che non riescono più ad attrarre neolaureati, una tendenza che si incrocia pericolosamente con il declino strutturale demografico che impatta duramente sui livelli occupazionali, dove tra il 1996 e il 2021 si nota un tracollo del 46% tra i giovani under 30.
I professionisti nel mercato del lavoro
Con 1.402.000 unità i liberi professionisti rappresentano il 28,5% del lavoro indipendente in Italia, segnando una crescita ininterrotta dal 2010, a parte la battuta d’arresto dovuta alla pandemia che tra il 2018 e il 2021 ha determinato una contrazione del 2% (-24 mila unità), in controtendenza rispetto al lavoro indipendente che tra il 2018 e il 2021 ha perso 343 mila posti di lavoro. L’emergenza Covid si fa sentire soprattutto sui liberi professionisti con dipendenti, dove negli ultimi quattro anni si è registrata una flessione di quasi il 13%, soprattutto nel Nord Ovest e nel Centro. In questo ambito, tuttavia, si registrano saldi occupazionali sempre positivi tra i dipendenti degli studi: nel 2021 si contano oltre 41 mila attivazioni nette, contro le 29 mila nel 2019, grazie anche all’aumento dei contratti di lavoro stabili, passati da 38.607 a 46.333 negli ultimi tre anni: un dato che riflette la stabilizzazione del lavoro negli studi professionali come confermato anche dai contratti di apprendistato.
La progressiva crescita del comparto libero professionale e la parallela contrazione del lavoro autonomo hanno portato ad una riconfigurazione strutturale dell’universo dell’occupazione indipendente in Italia: se nel 2009 i liberi professionisti valevano solo il 20% del lavoro indipendente, oggi il loro peso è salito al 28,5%. In questo ambito i settori economici più dinamici sono quelli legati alle professioni scientifiche e tecniche e all’area sanità e istruzione. Sempre sul piano occupazionale si assiste a un forte divario tra il Nord e il Mezzogiorno: mentre le regioni del Nord si allineano alla media europea (68,2% nel secondo trimestre 2022), nel Sud e nelle isole il tasso di occupazione si ferma al 47%.
La questione di genere
Nella libera professione si conferma ancora una volta una prevalenza maschile più marcata rispetto a quella femminile: i maschi rappresentano infatti quasi il 65% del totale della popolazione professionale (le donne si fermano al 35%). Tuttavia, la crescita occupazionale femminile rispetto a quella maschile è molto più vivace nell’ultimo decennio e se l’aumento dei maschi si ferma a circa 69 mila unità nel 2021, la popolazione femminile cresce di circa 145 mila unità in più rispetto al 2010, trainata soprattutto dalle regioni del Mezzogiorno.
Un dato molto positivo e un contributo alla riduzione di quel divario di genere che in molte regioni del Sud Italia rimane ancora significativo: in Molise, Campania e Calabria l’incidenza delle donne nella libera professione si attesta ancora sul 27%, 12-13 punti al di sotto delle regioni che vantano il miglior gender balance, che sono Lazio ed Emilia Romagna. La crescita delle donne si registra pressoché in tutte le aree professionali, ma sono soprattutto i settori della sanità e dell’assistenza sociale quelli a maggior trazione femminile, mentre nelle professioni legali la parità di genere è un risultato assodato. Inoltre, il gender balance appare decisamente più equilibrato tra le fasce più giovani, nonostante la quota di donne tra i giovani professionisti scenda dal 48,5% del 2018 al 42,8%, segno che la recente crisi ha colpito duramente questo segmento.
I redditi dei professionisti
In termini di reddito complessivo, la libera professione vale oltre 40 miliardi di euro in Italia e quasi l’84% di tale reddito proviene dai professionisti iscritti alle Casse di previdenza private, ovvero sostanzialmente dai professionisti ordinistici. Permane tuttavia un forte divario tra i redditi medi dei professionisti ordinistici (attorno ai 35 mila euro,) e non ordinistici (circa 15.500 euro). Tra gli iscritti alle Casse di previdenza private, i redditi più elevati si registrano tra gli attuari (87.275 euro), i commercialisti (68.000 euro) e i consulenti del lavoro (54.855 euro) mentre chi guadagna meno sono agrotecnici, psicologi e giornalisti.
I numeri cambiano se si guarda ai professionisti iscritti alla gestione separata dell’Inps. Nel 2021 si contano oltre 400 mila professionisti attivi, per un reddito medio pro capite di circa 15.500 euro in calo rispetto ai 19 mila euro del 2010. Va segnalato che il numero dei professionisti “senza cassa” è in costante aumento dal 2010, quando la Cassa Inps contava circa 260 mila professionisti contribuenti e in questo contesto la dinamica dei redditi medi complessivi vede una costante contrazione, data dal fatto che a crescere sono soprattutto i contribuenti a reddito minimo.
Università e professioni
Giovani, università e professione sono rette parallele che non si incontrano. Il primo dato netto che emerge dal Rapporto 2022 è il calo di appeal della libera professione a vantaggio del lavoro dipendente. Grazie alla collaborazione con Almalaurea e prendendo come parametro di riferimento i laureati nel 2009 e nel 2016 emerge come il numero di laureati sia passato da oltre 103 mila (2009) a più di 114 mila (2016), con un tasso di occupazione a cinque anni dalla laurea rispettivamente del 75,1% all’81,3%. In questo ambito però la quota di liberi professionisti scende dal 27,9% (21.643 professionisti) al 21,7% (20,089). Una “fuga” dalla professione che si registra pressoché in tutte le discipline professionali e in tutte le regioni, anche se nel Sud e nelle Isole la distanza si riduce.
Tra le cause del calo di laureati nella libera professione c’è anche la questione reddituale. Al 2021 il reddito medio mensile netto dei liberi professionisti a cinque anni dalla laurea è pari a 1.678 euro; quello dei dipendenti si attesta sui 1.625 euro. La crescita dei redditi tra i giovani liberi professionisti è stata più intensa nel meridione, dove nel 2014 si partiva da redditi medi mensili inferiori a mille euro per poi arrivare ai 1:500 euro nel 2021. Anche in questo caso, comunque, la pandemia si è fatta sentire sull’occupazione dei neolaureati. Secondo i dati Almalaurea 2021 un giovane laureato su tre ha infatti sperimentato una riduzione dell’attività (contro il 12% tra i dipendenti) e il 21% ha anche subito un periodo di stop forzato (dato che scende al 14% tra i dipendenti).
Un Paese senza figli
Tale fenomeno assume particolare rilievo alla luce del declino strutturale demografico che si riversa poi sulle dinamiche del mercato del lavoro. Dal Rapporto Confprofessioni emerge come il tasso di fecondità in Italia passa da 2,41 nel 1960 a 1,24 nel 2020; riduzione continua della popolazione dal 2015 e, a differenza di altri paesi, il fattore migratorio non riesce in Italia a colmare il gap, il saldo risulta sempre negativo. Nell’arco degli ultimi 8 anni la popolazione residente è scesa di un milione e 363 mila unità e ancor più preoccupante è la riduzione dei giovani tra i 15 e i 29 anni, che passa da oltre 12 milioni nel 1996 a poco meno di 9 milioni nel 2021. L’impatto sui livelli occupazionali è a dir poco allarmante: in questa fascia d’età il calo degli occupati supera il 46%. Analizzando le tendenze di lungo periodo, emerge infatti come nel 1993 le forze di lavoro potenziali in ingresso superavano di quasi tre milioni e 500 mila unità quelle in uscita; nel 2002 il mercato del lavoro italiano poteva ancora contare su saldi demografico-occupazionali positivi, seppure molto più contenuti (680 mila unità). Nel 2011, invece, la situazione appare rovesciata: i contingenti di “forze lavoro potenziali in uscita” superavano di oltre tre milioni le nuove leve potenziali, con un saldo negativo in continuo aumento, salito a oltre 6 milioni di unità al 2021. Numeri che indicano come il mercato del lavoro non ha i numeri necessari ad alimentare il normale, necessario ricambio generazionale.
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