Una ricerca recentemente pubblicata dall’Agenzia europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, con sede a Dublino, ci offre un’analisi comparativa approfondita sull’evoluzione della precarietà lavorativa nei Paesi dell’UE-27, fornendo una fotografia dettagliata delle condizioni occupazionali dei segmenti più vulnerabili del mercato del lavoro europeo tra il 2009 e il 2021. Lo studio si basa sui dati dell’indagine Eurostat sulla forza lavoro (LFS) e utilizza il nuovo Indice Multidimensionale di Precarietà (Adjusted Multidimensional Precariousness Index – AMPI), che consente di misurare sia l’incidenza sia l’intensità della precarietà occupazionale.
L’analisi rileva due principali pattern nell’evoluzione della precarietà. A seguito della “Grande Recessione” determinata dalla crisi finanziaria globale del 2009 , si è osservato un aumento della precarietà generale, alimentata dall’espansione dei contratti temporanei e dei part-time involontari che ne accrescono l’intensità. A partire dal 2016, invece, si nota una tendenza alla riduzione della precarietà, in gran parte dovuta alla diminuzione dell’incertezza occupazionale (per esempio, calo dei part time e dei contratti a tempo determinato involontari). Tuttavia, tale riduzione non interessa trasversalmente le forze di lavoro; la precarietà, infatti, varia notevolmente a seconda dei diversi profili sociodemografici. I giovani risultano più esposti, confermando la componente transitoria del fenomeno, mentre gli adulti mostrano minori livelli di insicurezza. Donne, lavoratori stranieri e persone con basso livello di istruzione affrontano un rischio maggiore di occupazioni precarie e condizioni di lavoro instabili. La durata dell’impiego gioca un ruolo chiave: chi mantiene un lavoro stabile accumula maggiore sicurezza e minore esposizione alla precarietà.
Lo studio mette in evidenza differenze significative tra gli Stati membri: i Paesi mediterranei (come Spagna e Grecia) e alcune economie nordiche (tra cui i Paesi Bassi) registrano i livelli più alti di precarietà, mentre i Paesi continentali ed europei orientali presentano valori più contenuti. La natura della precarietà varia anche in termini di dimensioni contributive: nei Paesi mediterranei e nordici il problema principale riguarda la sicurezza del lavoro, legata alla diffusione di contratti temporanei e part-time involontari, mentre in Paesi continentali e orientali il peso maggiore è rappresentato dalla precarietà finanziaria. Dal punto di vista settoriale, le occupazioni low-skilled e i servizi mostrano una maggiore incidenza di lavoro precario, riflettendo le esigenze delle imprese di flessibilità organizzativa e adattabilità a domanda variabile.
La precarietà occupazionale, secondo gli indici sopra richiamati, è caratterizzata dalla condizione di lavoro “non standard”, ossia, non rispondente alla definizione di lavoro standard concordata a livello UE come “contratto di lavoro a tempo indeterminato e full time”. La ricerca conferma il dibattito tra due effetti opposti delle occupazioni “non standard”: da un lato, l’effetto “stepping stone”, dei contratti a tempo determinato e part time, che favorisce l’ingresso stabile nel mercato del lavoro; dall’altro, l’effetto “vicolo cieco” dove le occupazioni precarie ostacolano la progressione professionale. La prevalenza dell’uno o dell’altro dipende dal contesto economico e istituzionale del paese: la precarietà tende a cristallizzarsi in contesti caratterizzati da elevata disoccupazione e da bassa protezione sociale.
I risultati dello studio offrono indicazioni concrete per le politiche europee e nazionali:
- Il calo della precarietà dopo il 2016 dimostra l’efficacia di interventi mirati da parte di istituzioni europee e governi nazionali;
- I bassi salari sono un fattore critico e potrebbero essere necessarie politiche mirate sul salario minimo;
iii. La transizione scuola-lavoro è cruciale per ridurre il rischio di precarietà per i giovani e favorire una carriera stabile;
- L’integrazione di politiche del lavoro e misure sociali (tra cui il sostegno alle famiglie) può proteggere i lavoratori in caso di perdita del lavoro e può ridurre le disparità di genere nei mercati del lavoro dei paesi membri dell’UE.
L’analisi evidenzia, inoltre, che la precarietà non è più un fenomeno ciclico, legato a crisi economiche temporanee, ma riflette le trasformazioni strutturali nei mercati del lavoro avanzati. Garantire flessibilità alle imprese senza compromettere la sicurezza dei lavoratori resta una sfida centrale. Contratti temporanei e part-time possono facilitare transizioni verso impieghi stabili, ma richiedono adeguate protezioni e strumenti di reintegrazione rapida per evitare periodi prolungati di inattività o disoccupazione.
Conclusioni
Lo studio condotto da Eurofound mostra che la precarietà lavorativa è un fenomeno complesso e multidimensionale, influenzato da fattori sociodemografici, occupazionali e istituzionali. I giovani, le donne, i lavoratori stranieri e le persone con basso livello di istruzione risultano più esposti a contratti precari e condizioni di lavoro instabili. Allo stesso tempo, l’analisi evidenzia che la precarietà tende ad avere una componente transitoria, in particolare tra i giovani, mentre diminuisce con l’esperienza lavorativa e la durata del rapporto di lavoro.
Le differenze tra Paesi e settori confermano, inoltre, che la precarietà non è distribuita uniformemente nell’UE. Infatti, nei Paesi mediterranei e nordici prevale l’insicurezza del lavoro legata a contratti temporanei e part-time involontari (e la quasi totale impossibilità di transitare da forme di lavoro non standard a un’occupazione stabile, ossia, con contratti standard). Mentre nei Paesi continentali e orientali la precarietà è più legata alla dimensione finanziaria. I settori dei servizi e le occupazioni low-skilled sono quelli che mostrano una maggiore incidenza della precarietà (forme di lavoro non standard), in parte a causa della flessibilità di cui necessitano le aziende di questo comparto del basso livello di competenze richiesto.
Dal punto di vista politico, la ricerca evidenzia come interventi mirati dopo il 2015 abbiano contribuito a ridurre l’insicurezza occupazionale. Tra le sfide che rimangono da superare per ridurre i livelli di precarietà del lavoro: i bassi salari, le differenze di genere e la necessità di politiche integrate che combinino protezione sociale, formazione e politiche attive del lavoro. Se alcune forme di lavoro non standard possono facilitare l’inserimento stabile nel mercato del lavoro, i contratti non standard involontari o marginali rischiano di diventare dei “vicoli ciechi” in assenza di adeguate protezioni sociali e strumenti di reinserimento nel mercato del lavoro (ad esempio formazione continua).
La riduzione della precarietà, dunque, richiede un approccio equilibrato capace di coniugare flessibilità economica e sicurezza dei lavoratori. Solo attraverso politiche mirate e coordinate a livello europeo e nazionale sarà possibile garantire un mercato del lavoro più stabile, equo e inclusivo, riducendo le disuguaglianze e favorendo percorsi di carriera sostenibili per tutti.
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