Un rapporto del Parlamento europeo denuncia il legame tra disparità economiche, carichi di cura e benessere psicologico femminile. Dalla precarietà digitale ai rischi psicosociali, servono riforme strutturali e un approccio integrato tra parità, salute e lavoro.
Le donne europee, pur rappresentando quasi la metà della forza lavoro dell’Unione, continuano a scontare disuguaglianze profonde e persistenti. Secondo un nuovo rapporto commissionato dal Parlamento europeo su richiesta della Commissione FEMM (Diritti delle donne e uguaglianza di genere), il prezzo della disparità di genere nel lavoro non si misura solo in euro, ma anche in salute mentale.
Tra i gap di genere più significativi troviamo ancora quello retributivo: in media, nell’UE le donne guadagnano il 12% in meno degli uomini, un divario che supera il 18% in alcuni Stati membri e che, nel tempo, si traduce in pensioni più basse del 25% per le donne.
A queste disuguaglianze si somma il peso del lavoro di cura non retribuito, che resta fortemente squilibrato: le donne dedicano 13 ore settimanali in più rispetto agli uomini alla cura di figli, anziani o familiari non autosufficienti. Un carico che riduce il tempo disponibile per il lavoro retribuito, va ad alimentare il part-time involontario e limita le opportunità di carriera.
Dietro le cifre ci sono cause strutturali note, ma mai superate, ossia: la segregazione occupazionale, la disistima del lavoro femminile (soprattutto nei settori dell’assistenza, dell’istruzione e del commercio) e un modello culturale ancora basato sul “breadwinner”, che vede l’uomo come principale portatore di reddito in famiglia.
Il risultato è una condizione di insicurezza economica cronica, che colpisce la salute mentale delle donne in modo trasversale. Il rapporto evidenzia che le donne sono 1,5 volte più soggette degli uomini a depressione cronica, con picchi tra le madri single, le giovani lavoratrici precarie e le donne anziane con carriere discontinue.
Le donne sono sovrarappresentate nei settori a basso salario e alta intensità emotiva — sanità, educazione, assistenza sociale, servizi alla persona — dove si confrontano con carichi di lavoro elevati, turni imprevedibili e bassa autonomia decisionale. Tutte queste condizioni generano stress psicosociale, fenomeni di burnout e disturbi d’ansia, tutte condizioni che spesso non sono riconosciute né trattate come rischi lavorativi.
I sistemi nazionali di salute e sicurezza sul lavoro (OSH), infatti, si concentrano ancora prevalentemente sui rischi fisici tipici dei settori maschili, trascurando quelli emotivi, organizzativi e relazionali che colpiscono maggiormente le lavoratrici.
Anche l’emergere di nuove forme di lavoro — come il lavoro su piattaforma, quello autonomo “fittizio” o il telelavoro ibrido — ha amplificato questi problemi. Se da un lato la flessibilità ha consentito a molte donne di conciliare lavoro e cura, dall’altro ha comportato un maggior isolamento, un’instabilità dei redditi, la sorveglianza algoritmica e l’assenza di tutele sociali. I sistemi di valutazione automatizzati, basati su algoritmi opachi, hanno mostrato bias di genere nella distribuzione dei compiti e nelle retribuzioni. Inoltre, il lavoro da remoto ha ridotto la separazione tra sfera professionale e personale generando un sovraccarico mentale soprattutto per le madri lavoratrici.
Un aspetto indagato dallo studio è quello del cumulo delle disparità di genere e della loro trasformazione nel corso della vita. Infatti, se le giovani donne affrontano precarietà, bassi salari e molestie nei primi impieghi, le donne-madri subiscono la penalizzazione della maternità che rallenta la carriera e riduce il reddito percepito, e le donne anziane spesso sono costrette a prolungare la vita lavorativa o a vivere in povertà a causa di pensioni insufficienti. Tutte queste esperienze, sommate, hanno effetti diretti sulla salute mentale (ansia da insicurezza economica, senso di colpa legato alla cura, esaurimento emotivo e isolamento sociale).
Il rapporto denuncia la frammentazione delle politiche europee e nazionali, con le diverse strategie (occupazione, salute e parità di genere) che raramente dialogano tra loro. Le stesse misure di prevenzione dei rischi psicosociali non includono la prospettiva di genere, come pure, sono ancora scarsi i dati disaggregati per sesso, età e condizione contrattuale, rendendo difficile monitorare i progressi o valutare le politiche.
Le proposte dei parlamentari
Il documento propone un pacchetto di raccomandazioni operative per interventi coordinati tra Europa e Stati membri in 7 aree d’azione. La prima concerne la riduzione dei divari di genere in salari e pensioni, e prevede la rapida attuazione della direttiva sulla trasparenza salariale, con controlli e sanzioni. I parlamentari propongono l’introduzione di verifiche obbligatorie sulle retribuzioni nelle imprese medie e grandi; quindi, l’integrazione del gap pensionistico di genere negli indicatori europei, e il riconoscimento del lavoro di cura non retribuito nei sistemi previdenziali attraverso contributi figurativi. Infine, la tassazione individuale e non familiare al fine di incentivare l’occupazione femminile.
La seconda area di intervento mira a migliorare le condizioni di lavoro e l’organizzazione con l’adozione di una direttiva europea vincolante sui rischi psicosociali, che imponga valutazioni di impatto sensibili al genere. A queste si dovrebbero aggiungere la riduzione dei carichi di lavoro e una maggiore prevedibilità degli orari, formazione obbligatoria su stress e gestione emotiva per i settori ad alta intensità relazionale e procedure trasparenti nei processi aziendali (assunzioni, promozioni e formazione) per contrastare i bias di genere.
Il terzo ambito di azione intende promuovere la salute mentale nei luoghi di lavoro, riconoscendo il burnout, l’ansia, la depressione e i disturbi da molestie come malattie professionali. I datori di lavoro sarebbero tenuti a adottare politiche di prevenzione strutturali, non solo individuali, e a fornire accesso gratuito e riservato a servizi di supporto psicologico per tutte le categorie lavorative. Gli stati membri sarebbero richiamati a ratificare la Convenzione dell’OIL n.190 sulla violenza e le molestie contro le donne nei luoghi di lavoro e la Convenzione OIL n.189 sul lavoro domestico.
Il quarto gruppo di azioni mira a regolare il lavoro digitale e non standard, con l’attuazione della direttiva sul lavoro tramite piattaforme in chiave di genere, con l’adozione di regole chiare sulla trasparenza algoritmica e sul diritto alla disconnessione, l’estensione di diritti sociali fondamentali (salario minimo, maternità e malattia) a tutte le forme di contratto. Non ultimo, l’aumento delle ispezioni del lavoro contro il falso lavoro autonomo.
La quinta area di intervento mira all’aumento degli investimenti nel settore della cura e al riequilibrio dei ruoli familiari con, in primo luogo, la revisione della direttiva sul work-life balance (conciliazione vita-lavoro), al fine di includere i lavoratori autonomi garantendo congedi parentali retribuiti e non trasferibili. Tra gli obiettivi vincolanti, quello della creazione di adeguati per i servizi di cura all’infanzia e di assistenza a lungo termine, sostenuti da fondi UE. Quindi la promozione di campagne informative per aumentare la partecipazione degli uomini al lavoro di cura e per contrastare gli stereotipi di genere nel lavoro e in famiglia. Infine, ma non ultimo, il miglioramento delle condizioni di lavoro nel settore dell’assistenza, elemento cruciale per la coesione sociale europea.
Il sesto ambito di azione è rivolto al rafforzamento della governance e del coordinamento, con la creazione di tavoli interministeriali permanenti su lavoro, salute, istruzione e parità. Quindi, l’integrazione degli obiettivi di genere e salute mentale in tutti i principali quadri politici europei e la destinazione di fondi dedicati (FSE+, FESR, Horizon Europe) per programmi integrati su benessere lavorativo e infrastrutture di cura.
La settima area di azione attiene al miglioramento della ricerca grazie all’obbligo di raccolta di dati disaggregati per sesso, età, contratto e background sociale e alla realizzazione di studi longitudinali sugli effetti a lungo termine della precarietà e della cura sulla salute mentale delle donne. Infine, la creazione di un quadro armonizzato di indicatori UE su salute mentale e rischi psicosociali di genere.
Nelle conclusioni, il Rapporto sottolinea come la cattiva salute mentale delle donne non possa essere trattata come un problema individuale, bensì come un effetto collaterale sistemico delle disuguaglianze economiche e sociali. Solo con politiche integrate e coordinate, che uniscono parità di genere, lavoro dignitoso, protezione sociale e salute mentale, sarà possibile invertire la rotta. Poiché la “parità di genere non è un lusso sociale, ma una condizione per la salute pubblica e la sostenibilità economica dell’Europa”, è necessario farne un principio guida in tutte le politiche europee – dal lavoro alla digitalizzazione, dalla cura alla salute – per un’Unione più giusta, resiliente e umana.







