Le entrate da fiscalità generale sono sufficienti a finanziare il nostro welfare relativo alla spesa per la sanità e per l’assistenza sociale a carico dello Stato, delle regioni e degli enti locali? Parte da questa domanda l‘ultima indagine del Centro studi presieduto da Alberto Brambilla e presentato nei giorni scorsi.
“La sostenibilità – si legge nella presentazione del report – dipende anche da chi e da quanti pagano, come chiede il sottotitolo della pubblicazione, nonché dalle “distorsioni” provocate dalle regole fiscali e dai troppo frequenti condoni o “paci fiscali”, che sono veri e propri incentivi impliciti a non pagare le imposte. Gli elevatissimi livelli di “redistribuzione” indagati dall’Osservatorio evidenziano una bassa “fedeltà fiscale” sia tra soggetti sia tra territori (la regionalizzazione delle entrate) e mettono in discussione la metodica del calcolo della povertà”.
Ed ecco la dichiarazione che fa saltare sulla sedia.
“Dall’analisi emergono “scomode verità”. Non è vero che siamo un Paese oppresso dalle tasse perché i veri oppressi sono pochi: meno del 20% della popolazione mentre una parte consistente non solo ne paga assai poche ma, grazie a un’eccessiva redistribuzione, a partire dalla spesa sanitaria, assistenziale e per la scuola, risulta totalmente a carico della collettività, e soprattutto dei redditi sopra i 35mila euro lordi l’anno che non beneficiano peraltro – se non marginalmente – di bonus, sgravi e agevolazioni e che hanno pochi vantaggi anche dall’AUUF, mentre latitano le proposte vere per ridurre la povertà. I risultati di questi ultimi 16 anni evidenziano i problemi del Paese causati da un eccessivo assistenzialismo che genera bassa produttività, bassissima occupazione e un altissimo debito pubblico che sarà difficile mantenere nei prossimi anni per non scaricare gli oneri su quei giovani che, a parole, tutti i partiti vogliono difendere ma che, di fatto, dovranno sopportare un costo di finanziamento del debito pubblico enorme sottraendo grandi risorse a sviluppo e investimenti”.
IL DIFFICILE FINANZIAMENTO DEL WELFARE
“Il principale obiettivo di questo Osservatorio è verificare il livello di finanziamento e quindi la sostenibilità nel tempo del nostro “generoso” welfare state italiano che, nel 2023, ha inciso per oltre il 50% sulla spesa statale totale e per il 31% del PIL ponendo il nostro Paese nella classifica Eurostat al secondo posto al pari dell’Austria per incidenza della spesa
per welfare sul PIL il che è come dire che siamo tra i primi 5/6 Paesi al mondo per welfare state. Considerando poi che quasi il 60% della popolazione dichiara redditi modesti, cercheremo di verificare se i livelli “presunti” di povertà sono tali o se invece è il distorto sistema fiscale che incentiva lavoro nero, evasione fiscale e contributiva e bassa occupazione e produttività”.
Come si finanzia il welfare italiano: le entrate fiscali e contributive
Le funzioni di welfare analizzate in questo Osservatorio sono pensioni, prestazioni di sostegno al reddito, infortuni, assistenza sociale, sanità e welfare enti locali.
Gli oneri relativi alle pensioni, all’assicurazione contro gli infortuni Inail e al sostegno al reddito per la disoccupazione involontaria sono finanziati da contributi di scopo, cioè dalla contribuzione sociale a carico dei lavoratori e dei datori di lavoro; invece, per le funzioni assistenza sociale e welfare enti locali, in mancanza di contributi di scopo, sono finanziate dalla fiscalità generale ed in particolare dall’IRPEF ordinaria e dall’addizionale comunale mentre per quanto riguarda la sanità, dopo l’eliminazione della contribuzione di scopo (5%
lavoratori e aziende) la parte preponderante del finanziamento alle regioni è costituita dalle imposte dirette e indirette1.
Nel 2023, l’IRPEF ordinaria, al netto dell’ex bonus Renzi da 80 euro sostituito
dal “trattamento integrativo del reddito” (TIR)2, vale circa 4 volte l’IRES (l’imposta sulle società), oltre 6 volte l’IRAP e poco più del gettito IVA, la maggiore imposta indiretta che ha fatto registrare 174,88 miliardi (171,6 nel 2022 e 148 nel 2021)3.
Nel 2023, sulla base dei dati di bilancio riclassificati4, il nostro sistema di protezione sociale, per pensioni, sanità e assistenza sociale, è costato 583,71 miliardi di euro (559,5 nel 2022) pari al 51% circa della spesa pubblica totale e al 58,6% rispetto alle entrate totali. Dal 2012, la spesa pubblica totale si è particolarmente dilatata passando da 820 a 1.146 miliardi con un incremento di 326 miliardi pari al 39,75% mentre le entrate totali sono passate da 771,7 a 996,59 miliardi con un incremento del 29.14% producendo un deficit di periodo 2012/2023 di 780,675 miliardi, cioè il 26% dell’intero debito pubblico.
Partendo dalla spesa pensionistica e per le prestazioni assicurative, come si vede
dalla tabella 6.1, nel 2023 la spesa per le pensioni e per le assicurazioni sociali (infortuni Inail, malattia, maternità, assegni familiari, sostegno al reddito tramite ammortizzatori sociali) è costata 292,11 miliardi al lordo dell’IRPEF che grava sulle pensioni; i contributi sociali pagati da lavoratori e aziende sono ammontati a 263,4 miliardi, per cui queste prestazioni sono autofinanziate dai contributi sociali per il 90% (90% nel 2022 e 86% nel 2021).
Sulle pensioni grava un’IRPEF di 62,2 miliardi5 che viene trattenuta alla fonte dalle amministrazioni per cui il costo effettivo per lo Stato si riduce e il saldo contabile passa da un deficit apparente di 28,717 miliardi a un attivo di 33,485 miliardi.
Pertanto, dal lato pensioni, possiamo dire che la spesa è più che finanziata anche considerando che la quota di contributi al momento del versamento gode della deducibilità fiscale e che quelli che con i loro contributi si pagano la pensione sono poco meno della metà; la riprova fattuale è che su 16,230 milioni di pensionati il 40,4% sono totalmente o
parzialmente assistiti perché nei 67 anni di vita da lavoratori potenzialmente attivi hanno versato pochi o nulli contributi sociali e quindi, essendo unica la dichiarazione dei redditi sulla quali si calcolano i contributi, poche o nulle imposte dirette risultando quindi per l’intera vita totalmente o parzialmente a carico del sistema sociale e di coloro che pagano tasse e contributi; lo stesso purtroppo si ripete per il finanziamento delle restanti funzioni di welfare.
Passando ora alle funzioni di welfare sanità, assistenza sociale e welfare enti locali6 che nel 2023, sono costate 318,128 miliardi, non essendoci come dicevamo, “tasse di scopo”7, sono a carico della fiscalità generale per finanziare queste spese è stato necessario l’utilizzo di tutte le imposte dirette IRPEF, addizionali, IRES, IRAP e ISOST che sono ammontate a 285,3 miliardi e anche 32,8 miliardi di imposte indirette, in primis l’IVA; quindi per le altre funzioni statali, scuola, sicurezza, investimenti in capitale e così via, restano solo le residue imposte indirette, le accise e sempre più spesso, il debito; una situazione che dovrebbe scoraggiare soprattutto l’incremento della spesa assistenziale che invece aumenta sempre più; nel periodo dal 2008 al 2023 (15 anni), è passata da 73 miliardi a oltre 164,432 miliardi con un tasso di crescita annuo del 4,3% fino al 2019 e dell’8% circa annuo tra il 2019 e il 2023 quindi molto superiore al PIL nominale ed oltre il doppio del tasso di incremento della spesa per le pensioni; rispetto all’importo del 2008, la somma degli incrementi di spesa è di 571,683 miliardi, per gran parte a debito pubblico che nello stesso periodo è aumentato di 1.226,7 miliardi.
LA SINTESI
Potremo definire gli italiani una «società di poveri benestanti»? Sembrerebbe di sì analizzando le effettive spese sostenute che testificano che gli italiani non sono così poveri come dichiarano: o il volume di denaro speso per il gioco d’azzardo (slot machine e gioco elettronico compreso ma escluso quello irregolare) ha raggiunto nel 2023 la spaventosa cifra di 150 miliardi di euro o gli italiani sono tra i maggiori possessori di prime e seconde case, detengono il parco auto più numeroso d’Europa o l’Italia è al primo posto in Europa oltre che per il possesso di abitazioni, autoveicoli e motoveicoli anche per la telefonia mobile e gli abbonamenti internet; primeggia anche per le TV a pagamento soprattutto per sport e cinema. Siamo al secondo posto per possesso di animali da compagnia dopo l’Ungheria.
La redistribuzione delle entrate fiscali tra: sanità, assistenza e scuola.
Per queste sole tre funzioni, la ridistribuzione totale è pari a 240,456 miliardi (1,27 volte l’importo della intera IRPEF) e il 36,3% di tutti i 661,78 miliardi di entrate fiscali al netto dei contributi sociali (dato relativo al DEF 2024) di cui 278 miliardi di imposte dirette (il valore è relativo ai redditi 2022); in pratica viene redistribuito l’86,33% di tutte le imposte dirette che va totalmente a beneficio del 53,19% di popolazione e in parte al 22,61%; poi c’è tutto il resto: ordine pubblico, giustizia, amministrazione, viabilità ecc. tutto a carico di pochi cittadini e del debito pubblico che ogni anno aumenta spaventosamente tra la totale indifferenza.
Sintesi e soluzioni
L’ Italia : continua l’insostenibile ripartizione 72,5 – 27,5 (72,5% di italiani a quasi totale carico del restante 27,5%) ed in particolare di quel 17,17% di cittadini che dichiarano redditi da 35mila euro in su e che pagano il 63,71% di tutta l’IRPEF; oppure 49,5% a carico; 32,93% quasi autosufficienti e 17,17% che mantengono il Paese, pagano il 90% e più delle altre imposte dirette.
Continua il “sogno” tutto italiano incentrato sul pericoloso binomio “meno dichiari e più avrai dallo Stato” il cui asse portante è l’ISEE, il motore del sommerso. Siamo quindi in presenza di un’evasione di massa fortemente incentivata dallo Stato.
Assenza di controlli: in questi ultimi 16 anni sono esplosi bonus e agevolazioni che si sono stratificati complicando e rendendo non equo il sistema fiscale ma nel contempo sono mancate le verifiche e i controlli; tutta questa assistenza è metadone sociale: più si spende in assistenza e più aumentano i poveri perché più assistenza e ISEE producono lavoro irregolare che a sua volta blocca la crescita, la produttività e l’occupazione: siamo sempre ultimi e sotto di 10 punti rispetto alle medie UE e 15 rispetto ai nostri competitor.
Siamo tra i pochi Paesi che non hanno un’anagrafe e una banca dati dell’assistenza; lo Stato fa sconti, bonus, decontribuzioni ma non sa quanto pagano comuni, province, regioni, comunità montane ecc.
Alcune proposte
Accanto a una profonda revisione dell’ISEE e alla costruzione dell’assistenza della “banca dati ”, ecco alcune delle azioni che si potrebbero mettere in campo per combattere l’evasione fiscale: a) riduzione del numero dei bonus e – in attesa della banca dati dell’assistenza – introdurre una “prova dei mezzi” differente dall’ISEE; buona parte di questi bonus dovrebbero essere estesi a tutti perché chi paga le tasse ha diritto ad avere per lo meno gli stessi servizi di chi le tasse non le paga; b) le agevolazioni dovrebbero essere calcolate non sullo stipendio lordo ma sul reddito netto (considerando l’effetto TIR, nel 2023 le imposte pagate da un lavoratore dipendente con un reddito tra 35 e 55mila euro sono 34 volte quelle di un reddito tra 7,5 e 15mila euro mentre tra 100.000 e 200.000 euro sono pari a 149 volte; con oltre 300mila euro di reddito, l’imposta equivale a 814 lavoratori tra 7.500 e 15mila euro (133 con redditi tra 15 e 20mila); c) per riequilibrare la situazione reddituale e limitare il sommerso, occorre introdurre anche sulle spese familiari il “contrasto di interessi”. d) inviare a tutti i cittadini un estratto conto che indichi le tasse pagate e i benefici di cui hanno goduto (in primis scuola e sanità) così la gran parte si renderà conto che ha pagato molto meno dei servizi ricevuti; e) analogamente ad altri Paesi europei, convocare oltre a una certa età (intorno ai 35 anni) chi non ha mai fatto una dichiarazione dei redditi per sapere di cosa vive; f) chiedere ai neopensionati assistiti sconosciuti a INPS e fisco il motivo per cui in 67 anni di vita non hanno versato contributi e tasse; g) evitare manovre fiscali (es. flat tax) che – con l’eliminazione delle deduzioni e detrazioni – incentiva elusioni e evasione fiscale; h) evitare la decontribuzione che non crea posti di lavoro, è costata in 3 anni oltre 66 miliardi di entrate in meno all’INPS, è debito occulto ed è costata allo Stato, per il 2024, in trasferimenti all’INPS 32 miliardi (una legge di bilancio).
I motivi del sempre più difficile finanziamento del welfare
L’aumento della spesa assistenziale, oltre che dalla necessità dei partiti di conquistare sempre più consensi, a scapito della sostenibilità, dipende da alcuni fattori: a) siamo uno dei pochi Paesi che non dispongono di un’anagrafe nazionale dell’assistenza né di attività di monitoraggio e controllo nell’assegnazione di prestazioni assistenziali erogate dallo Stato centrale (INPS, Inail, bonus fiscali, esenzioni sanitarie, esenzione ticket ecc.) e degli Enti locali (Comuni, Province, Regioni, Comunità montane e altro) per cui una notevole quantità di prestazioni sono percepite indebitamente come spesso si rileva dagli atti di indagine o giudiziari; nel 2022 il Governo Draghi ha varato finalmente dopo oltre 15 anni, su proposta formulata dal nostro Centro Studi Itinerari Previdenziali, la realizzazione dell’anagrafe generale dell’assistenza che doveva essere completata nel 2023 ma di cui ancora oggi, anno 2025, non si sa nulla; b) nonostante questi preoccupanti numeri (più si spende e
più aumentano i poveri) la politica continua ad aumentare le prestazioni assistenziali a partire dal TIR (l’ex bonus Renzi maggiorato), dalle detrazioni per i redditi fino a 25mila euro, (a volte 35mila) da svariati bonus e agevolazioni su bollette, accise, mobili, elettrodomestici, canone TV, contributi affitti e così via. Poi, dopo il REI (Reddito di inclusione introdotto dal PD) e dopo il Reddito di Cittadinanza, la pensione di cittadinanza10 e il reddito di emergenza del Governo gialloverde, il Governo Meloni li ha sostituiti con l’assegno di inclusione (AdI), che nel periodo gennaio – giugno 2024 ha riguardato 697.640 nuclei familiari su un potenziale di 737mila le famiglie che coinvolge 1,7 milioni di cittadini (482.367 Sud e Isole; 90.818, al Centro e 124.455 al Nord) per un assegno medio di 618 euro al mese e un costo intorno ai 4,7 miliardi11; ha inoltre introdotto il SFL (supporto alla
formazione e al lavoro) che nello stesso periodo ha coinvolto 96.161 persone (80% al Sud).
Sarebbe altresì necessario abolire la flat tax che non prevedendo deduzioni e detrazioni incentiva elusioni e evasione fiscale. Due strumenti che sono un potente “motore” per produrre sommerso. Per questo occorre introdurre il contrasto d’interessi, che costerebbe assai poco allo Stato, ma garantirebbe più vantaggi per le famiglie di lavoratori dipendenti e maggiore equità. Infine, occorre sottolineare come il sistema fiscale italiano, in particolare la curva IRPEF, è totalmente falsato da una doppia serie di interventi pubblici: da un lato gli sgravi fiscali (TIR, decontribuzioni e deduzioni) e dall’altro dalle prestazioni in danaro erogate dalla pubblica amministrazione quali l’AUUF12, alcuni bonus e prestazioni non contabilizzate erogate da enti locali.
Ma siamo così poveri? Facciamo qualche verifica!
Tanto per cominciare il nostro Paese è al primo posto in Europa nella classifica per evasione fiscale; secondo gli ultimi dati approvati dal Parlamento europeo: “In valori assoluti l’Italia è al primo posto con 190,9 miliardi evasi ogni anno, mentre al secondo e al terzo posto seguono Germania (125,1 miliardi) e Francia (117, 9 miliardi); prima anche per evasione pro capite con una media di 3.156 euro l’anno a persona. Ciò nonostante, l’Istat calcola che quasi il 25% (un quarto degli italiani) si trova tra povertà assoluta e relativa e per fare questo calcolo si basa sulle dichiarazioni volontarie e non verificate relative alla spesa settimanale e mensile di un piccolo gruppo di individui e famiglie (circa 32 mila famiglie) selezionate dall’Istat. E sempre sulle dichiarazioni dei redditi, incuranti del tanto lavoro nero
ed evasione, lo Stato, in base all’ISEE, definisce bonus, sussidi, sgravi e recentemente i contributi ai cosiddetti incapienti (coloro che dichiarano talmente poco da non poter beneficiare per intero di bonus e agevolazioni).
La fotografia del Paese sta tutta in queste scarne cifre: il 15,7% della popolazione paga
il 62,4%; mentre il restante 82,3% paga il 37,6%. È più che evidente che questa non può essere l’immagine di uno tra i 7 Paesi più sviluppati, tanto più se consideriamo una serie di spese che testificano che gli italiani non sono così poveri come si dichiarano.
Gli italiani sono tra i maggiori possessori di prime e seconde case, detengono il parco auto più numeroso d’Europa (dopo il piccolo Lussemburgo); l’Italia è al primo posto in Europa oltre che per il possesso di abitazioni, autoveicoli e motoveicoli anche per la telefonia mobile e gli abbonamenti internet15; primeggia anche per le TV a pagamento soprattutto per sport e cinema. Siamo anche primi in Europa per consumo di acqua e tra i primi per consumo di carne. Siamo al secondo posto per possesso di animali da compagnia dopo l’Ungheria. Ci sono poi altre spese, tra le quali quelle per conoscere il futuro dai maghi e fattucchiere dove gli italiani primeggiano con oltre 9 miliardi (dati 2019), più di quello che si accantona per i fondi pensione, cioè per il futuro ma quello vero16. Siamo anche tra i Paesi europei che consumano più droghe.
E,,,l’Istat situa il 30% della povertà al Sud. Infatti, il versamento pro capite dell’IVA al Sud è di 860,34 euro l’anno contro i 3.615,40 euro del Nord, e i 5.539 euro pro capite della Lombardia; è evidente che al Sud i circa 20 milioni di individui non vivono con consumi di quasi 4,2 volte inferiori a quelli del Nord.







