Previdenza di genere. Lo studio della Commissione lavoro della Camera

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E’ stata presentata a Roma, alla Camera dei deputati, l’indagine conoscitiva “Sull’impatto in termini di genere della normativa previdenziale e sulle disparità esistenti in materia di trattamenti pensionistici tra uomini e donne”.

Lo studio, partito un anno fa, è stato voluto e portato a termine dalla Commissione lavoro di Montecitorio. Resoconti delle tante audizioni, un documento conclusivo e una relazione della professoressa Paola Profeta, Dipartimento di Analisi politiche e managment pubblico della Bocconi, compongono le quasi 500 pagine raccolte in un volume.

Obiettivo dell’indagine, si legge nell’introduzione scritta dal Presidente Cesare Damiano, “la realizzazione di una ricostruzione completa e aggiornata dei diversi aspetti del sistema previdenziale italiano che contribuiscono a determinare la persistenza di profonde disparità tra uomini e donne”, valutando anche gli impatti che le varie leggi, norme e riforme della previdenza hanno avuto sul gender gap.

“E’ evidente – si legge nella premessa – che le differenze di genere nei trattamenti previdenziali possono essere influenzate anche dal disegno della normativa in materia pensionistica” per questo“Nel contesto del progressivo passaggio ad un sistema di calcolo della misura delle pensioni esclusivamente sulla base del metodo contributivo, è opportuno quindi valutare anche gli effetti delle più recenti novità legislative introdotte in materia previdenziale, che hanno previsto una progressiva parificazione dell’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia tra uomini e donne”.

Una parificazione che, per la Commissione lavoro, ha interessato non solo il sistema pubblico ma “anche il lavoro privato e quello autonomo, destinato a completarsi nel 2018, che tuttavia, nei fatti, attraverso l’immediato innalzamento del requisito anagrafico a 62 anni per le lavoratrici private e a 63 e 6 mesi per le lavoratrici autonome ha dato avvio ad una rincorsa che si è tradotta in un ritardato accesso alla pensione da un minimo di 4 anni a un massimo di 7 anni rispetto alle regole vigenti”.

Ma andiamo ai numeri, per poi descrivere le conclusioni alle quali sono giunti i componenti della Commissione lavoro della Camera, dando uno sguardo anche oltre confine.

La prima tabella, infatti, che salta all’occhio scorrendo l’indagine è quella che evidenzia il “reddito mensile medio di genere da pensione nei Paesi Ocse.

La maglia nera va a Lussemburgo dove gli uomini percepiscono una pensione mensile che sfiora i 4mila euro mentre le donne superano di poco i duemila. In Francia le donne percepiscono quasi 800 euro in meno degli uomini, stesso differenziale si riscontra in Germania mentre in  Italia il gap si attesta intorno alle 600 euro (1.654euro  la pensione mensile di un uomo, 1.064 quella della donna).

Il quadro di insieme che confronta il dato sull’occupazione evidenzia  come nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, è pari al 69,7%  per gli uomini e al 59,5 per cento per le donne. Un divario che per la dottoressa D’Addio “tende ad ampliarsi nelle fasce di popolazione di età più elevata” e che preoccupa la Commissione lavoro di Montecitorio perchè “Sono proprio le differenze esistenti tra uomini e donne nella partecipazione al mercato del lavoro, nel livello dei redditi da lavoro, nel numero delle ore lavorate e nella durata complessiva dei periodi di contribuzione, ad essere gli elementi che contribuiscono alla disparità in materia pensionistica”.

Anche perchè se puntiamo la lente di ingrandimento sul nostro Paese la situazione nazionale non si discosta di molto da quella dei Paesi Ue. A dicembre 2015, il tasso di occupazione per le donne era pari al 47,1 per cento, quella degli uomini al 65,9%, con una differenza di quasi 19 punti percentuali. Anche se “dal punto di vista tendenziale, dai dati relativi al marzo 2016, emerge che su base annua il tasso di occupazione cresce sia per gli uomini sia per le donne.

Sul fronte redditi, il gap tra uomini e donne, a differenza del tasso di occupazione, non mostra segni di riassorbimento. Se nel 2010 i salari percepiti dalle donne lavoratrici dipendenti erano pari al 68,5% di quegli degli uomini, nel 2013 sono al 68,6 per cento (Fonte Inps).

Ma non solo. Secondo l’Istat, nel 2013, oltre mezzo milione di donne tra i 58 e i 63 anni percepiva un reddito da lavoro per un ammontare medio annuo pari a 19.603 euro. Dati che si riconfermano anche nel primo trimestre del 2015.

Dati, analisi, confronti che portano la Commissione lavoro della Camera presieduta da Cesare Damiano a trarre le conclusioni di quanto audito e raccolto. Anche perché tutti gli “attori” ascoltati, come dichiara la stessa Commissione, hanno sottolineato la necessità di intervenire ex ante.

Il più basso tasso di attività femminile (soprattutto al Sud) – conclude la Commissione –  la maggiore discontinuità delle carriere legata alla maternità e ai più gravosi carichi familiari, il più ampio ricorso a forme contrattuali flessibili e al part-time, sono tutti fattori che, soprattutto in un sistema di calcolo contributivo, si traducono in pensioni più basse e nella necessità per le donne di lavorare più a lungo per maturare i requisiti di accesso al pensionamento confrontandosi con le difficoltà di trovare o mantenere un’occupazione in un’età avanzata”.

Cosa fare allora?

“A distanza di quasi cinque anni, nei quali gli unici interventi significativi messi in campo riguardano i cosiddetti esodati, appare pertanto giunto il momento di avviare una riflessione seria e approfondita sull’introduzione dei possibili correttivi, anche nella prospettiva di garantire che i futuri interventi di riforma siano adeguatamente ponderati in funzione anti-discriminatoria”.

A partire, secondo la Commissione, dall’introduzione in tutte le scelte politiche che hanno una portata sociale della valutazione di impatto di genere, identificando le cause di disparità in materia pensionistica e in ambito lavorativo.

Via anche al bilancio di genere che la Ragioneria dello Stato dovrebbe sperimentare e che dovrebbe contenere analisi di impatto in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito.

Occorre inoltre aumentare i benefici (accrediti figurativi, aumenti dell’importo pensionistico, facoltà di riscatto) in relazione a specifici eventi, quali la nascita e la malattia dei figli, l’assistenza a disabili ed anziani non autosufficienti. Ad esempio si potrebbe tener conto – sottolinea la Commissione –  ai fini del calcolo contributivo, non già dell’intero ciclo di vita lavorativa, ma solo degli anni meglio remunerati escludendo quelli a salario zero o a basso reddito dedicati ai lavori di cura”. Soluzioni simili, anche se diverse tra loro, sono adottate da altri Paesi quali la Francia, la Germania o la Svizzera”.

E più in generale, conclude la Commissione lavoro, “considerato che saranno sempre più frequenti carriere contributive frammentate e sulla scorta delle evidenze emerse dalla presente indagine, appare in ogni caso necessario avviare una riflessione sui correttivi da apportare al nostro sistema previdenziale, al fine di coniugare la logica del contributivo con l’esigenza di non penalizzare, in modo socialmente insostenibile, i lavoratori che siano stati occupati in modo precario o discontinuo”.

Ed infine “la strada da percorrere potrebbe essere quella della costruzione di un pilastro previdenziale di base, finanziato dalla fiscalità generale, che garantisca a tutti i lavoratori uno zoccolo pensionistico di sussistenza sul quale si andrebbe ad innestare il calcolo contributivo legato alla storia lavorativa”.