Istat “Solo l’11% delle imprese è solido”

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“I risultati indicano che una porzione significativa del sistema produttivo è a “rischio strutturale”: esposte a una crisi esogena, queste imprese subirebbero conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività” è quanto emerge dal Rapporto Istat che analizza le conseguenze per l’economia italiana, e in particolare per il sistema produttivo del nostro Paese, della pandemia da Covid-19.

“Si tratta di circa il 45 per cento delle unità con almeno tre addetti, rappresentative del 20,6 per cento dell’occupazione e del 6,9 per cento del valore aggiunto complessivi. All’opposto, solo l’11,0 per cento delle imprese risulta “solido” e sarebbe interessato in misura marginale dalla crisi. Tuttavia, un aspetto incoraggiante per la generale capacità di tenuta del sistema è che quest’ultimo segmento produttivo rappresenta la quota di gran lunga più significativa in termini sia di occupazione (46,3 per cento) sia di valore aggiunto (68,8 per cento)”.

“Di fronte alla crisi più improvvisa, severa e pervasiva dal dopoguerra a oggi, le imprese hanno reagito in ordine sparso e in modo molto differenziato. Circa il 30 per cento è rimasto “spiazzato”: pur avendo risentito fortemente della caduta dell’attività, a fine 2020 queste unità non avevano ancora attuato una strategia di difesa. Un quarto aveva reagito attraverso l’introduzione di nuovi prodotti, la diversificazione dei canali di vendita e di fornitura (anche attraverso il passaggio a servizi on line e e-commerce), l’intensificazione delle relazioni esistenti o l’attivazione di nuove forme di relazioni produttive con altre imprese; un quinto aveva intrapreso misure di profonda riorganizzazione dei processi e degli spazi di lavoro, orientandosi verso la transizione digitale o l’adozione di nuovi modelli di business”.

“Non sorprende, pertanto, che in alcuni servizi a bassa intensità di conoscenza e in comparti industriali a basso contenuto tecnologico l’incidenza di imprese a rischio strutturale sia elevatissima: nel terziario accade, con percentuali comprese tra l’85 e il 95,5 per cento, nei settori di ristorazione, servizi per edifici e paesaggio, altre attività di servizi alla persona, assistenza sociale non residenziale, attività sportive e di intrattenimento. Nell’industria avviene, con quote comprese tra il 73 e l’80 per cento, nei comparti di legno, costruzioni specializzate, alimentare, abbigliamento.”

“Una conseguenza della pandemia è l’accelerazione del processo di trasformazione digitale delle imprese, con interventi su processi aziendali chiave come la comunicazione interna, la comunicazione all’esterno e i canali di commercializzazione di prodotti e servizi. L’esigenza di distanziamento sociale e il progressivo affermarsi dello smart working hanno favorito la diffusione di investimenti in beni immateriali quali server cloud e postazioni di lavoro virtuali (più che raddoppiata tra marzo e novembre), e di quelli in software per la gestione condivisa di progetti (triplicata), nonché il raddoppio del numero di imprese che ricorrono all’e-commerce. La possibilità di reagire con successo, tuttavia, dipende anche dalle scelte che le imprese avevano intrapreso negli anni precedenti la diffusione della pandemia: le prospettive di ripresa di medio-lungo periodo del sistema produttivo potrebbero infatti risultare molto differenti a seconda che gli investimenti passati in tecnologia o in capitale umano e immateriale − qui sintetizzati in un indicatore di “dinamismo strategico” − si siano rivelati o meno fattori di resilienza”.

Liquidità e accesso ai finanziamenti

“La crisi pandemica ha inciso anche sulle strategie di finanziamento delle imprese che, per fronteggiare la crisi di liquidita’, hanno utilizzato un insieme ampio di strumenti nell’ambito dei quali il credito bancario ha rivestito un ruolo centrale. In generale, sulla base delle indicazioni fornite dalle imprese per il 2021, le modifiche ai canali di finanziamento indotte dalla pandemia appaiono transitorie e legate per lo più alle conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria. L’insolvenza di molte imprese, che costituisce il principale rischio nei mesi a venire per il sistema produttivo italiano, aumenta l’esposizione del sistema bancario a possibili trasmissioni dello shock dal segmento non finanziario, implicando possibili tensioni sia sui bilanci delle banche, sia sui rapporti banca-impresa”

Mercato del lavoro

“L’evoluzione dell’emergenza sanitaria – si legge nello studio – ha avuto effetti differenziati sul mercato del lavoro, determinando una diffusa riduzione dell’occupazione che solo lentamente, e in misura parziale, ha alimentato la disoccupazione, mentre ha causato in prevalenza un’uscita – verosimilmente temporanea − dalle forze di lavoro. L’impatto sull’occupazione è dipeso dall’interazione tra le misure di contenimento del contagio, il livello di flessibilità della regolamentazione dei contratti e gli interventi straordinari adottati dai rispettivi governi. In particolare, misure di tutela del lavoro quali la cassa integrazione rendono meno rappresentative, per una analisi ciclica della produttività, gli indicatori basati sul numero di addetti. L’impatto sull’input di lavoro è colto, invece, da quelli calcolati a partire dalle ore lavorate che registrano una caduta cospicua in tutte le principali economie europee, più acute in Italia e Spagna, meno intense in Francia e Germania”.

In Italia, a febbraio gli occupati erano 945mila in meno rispetto a dodici mesi prima, anche se rispetto a gennaio era stata registrata una sostanziale stabilità (6mila occupati in più).  Il calo maggiore riguarda i lavoratori dipendenti (- 600mila), mentre sono circa 350mila gli autonomi che rispetto a febbraio 2020 non hanno più il proprio posto di lavoro. Il tasso di inattività tra i 15 e i 64 anni è al 37%, in crescita di 2,1 punti rispetto a febbraio, prima dell’inizio delle restrizioni legate alla pandemia.

Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni a febbraio era del 31,6% con un calo di 1,2 punti su gennaio e un aumento di 2,6 punti su febbraio 2020. I giovani al lavoro a febbraio erano 919.000, il 15,7% del totale, con un calo di 159.000 unità rispetto a un anno prima e con un aumento di 4.000 unità su gennaio.