Camporese: “Non c’è previdenza senza redditi, senza lavoro”

698

così il presidente dell’Adepp in un’intervista pubblicata su Previnforma dal titolo “I passi in avanti delle Casse dei profesionisti”, a cura di Gianni Ferrante, nella quale Camporese avverte: ” Un Paese in recessione è un Paese che mette in difficoltà le pensioni, i redditi, le famiglie e i consumi”.

Partiamo da qualche numero, per definire i contorni dell’Associazione.

Parliamo di oltre 2 milioni di iscritti che afferiscono nell’ambito Adepp a 18 Casse previdenziali, cui si aggiungono 2 Casse assistenziali (Onaosi e Casagit); poi c’è da aggiungere l’Enasarco, la Cassa degli agenti di commercio. Si tratta di un perimetro complessivo che comprende 19 Casse, cui fanno capo 27 professioni ordinistiche. Per completezza bisogna ancora aggiungere il Fasc (il Fondo degli Agenti spedizionieri e corrieri).

Il patrimonio gestito, con i valori immobiliari a bilancio, peraltro fossilizzati al 1997 (cioè al momento della privatizzazione) e mai più rivalutati, si aggira sui 43 miliardi: una stima aggiornata porterebbe a 50-53 miliardi.

Negli ultimi anni, come è noto, si è ripetutamente intervenuti sul sistema previdenziale, sia pubblico che di secondo pilastro, nelle sue diverse articolazioni, fino alla riforma del dicembre 2011 (Monti-Fornero). Lungo questo percorso quali sono state le azioni concrete di autoriforma del vostro sistema?

Nell’ultimo decennio molte Casse hanno varato riforme importanti. Penso ai giornalisti, la Cassa che presiedo, che hanno attuato una riforma nel 2006 e un’altra nel 2011; penso ai commercialisti, che sono passati al sistema contributivo; ai medici – la Cassa più grande – che stanno per varare, in aprile, un’importantissima riforma; penso ai notai che l’hanno appena varata, portando l’aliquota contributiva al 33%.

In generale tutto il sistema privato delle Casse ha virato verso una maggiore sostenibilità attraverso delle riforme. In alcuni casi anche attraverso un taglio delle prestazioni: una tendenza a un metodo di calcolo simile al contributivo, ma non sovrapponibile. La polemica recente sul contributivo, ovvero sulla base della “norma Fornero”, che dice che se non hai una sostenibilità a 50 anni passi al contributivo pro rata non tiene conto che noi abbiamo si il sistema retributivo, ma non alla vecchia maniera, quando si consideravano i migliori anni, le migliori medie: quelle cose non ci sono più. Ora ci sono metodi di calcolo articolati che hanno tutti come base i redditi reali e la vita lavorativa. Salvo casi eccezionali – come i notai, che hanno un sistema a prestazione definita – per il resto il sistema ha assunto a riferimento i redditi reali, tutta la vita lavorativa, con elementi di correzione di tipo solidaristico, di tutela delle pensioni più basse, legate all’erogazione di alcune prestazioni.

La spinta di autoriforma è stata innanzitutto votata alla sostenibilità finanziaria. In alcuni casi il modello applicato è, per così dire, quello della Fornero, ovvero il contributivo. In particolare, le Casse di nuova generazione, quelle che fanno capo al decreto legge n. 103, che sono 5, sono tutte al contributivo dalla nascita, dal ’96-97; i commercialisti sono passati al contributivo puro; altri hanno incardinato le riforme che ho richiamato. Parlare di un sistema previdenziale privatizzato che sta nel retributivo vecchia maniera significa parlare di venti-trenta anni fa.

Nell’ambito dell’Associazione ci sono realtà in condizione di maggiore o minore equilibrio economico? Esistono diversi gradi di consapevolezza sui passi da compiere tra gli associati alle diverse Casse in direzione di un adeguamento?

Non entro nello specifico della singola situazione. Posso dire che c’è un problema di maturità previdenziale: una Cassa come quella dei giornalisti, che ha 100 anni di storia, ha un sistema completamente maturo; altre, più giovani, si trovano nella fase di accumulo e non di spesa. In linea generale, è ovvio che ci sono elementi di solidità e di sostenibilità diversi. Però, possiamo dire che tranne la Cassa dei ragionieri, che ha un problema strutturale – non ha più ingressi – perché si entra nella professione con la laurea, e quindi, a seguito di una nuova legge, i nuovi commercialisti hanno la loro Cassa. Tolto questo caso – che peraltro è in discussione da molti anni: fondersi o meno con i commercialisti e così via – per gli altri non si può dire che ci sia una Cassa a rischio default, a rischio di non poter pagare le pensioni. Ci sono consistenze di patrimonio e afflussi di contributi diverse. Certamente c’è chi è più sostenibile e chi meno: però non si può dire che qualcuno non sia in grado di pagare le pensioni.

Nel contenzioso aperto con il governo – a partire dall’assunzione dei criteri di calcolo richiesti – qual è il passaggio per voi meno ricevibile?

Intanto c’è stato un avanzamento. In più occasioni il ministro lo ha dichiarato pubblicamente, e il governo qualche giorno fa ha assorbito un ordine del giorno che chiarisce, pare in via definitiva, la possibilità di utilizzo dei rendimenti dei patrimoni. La sostenibilità si fa con le entrate, con le uscite i rendimenti dei patrimoni e i costi di struttura.

Questo è già un passo in avanti, perché non conteggiare i rendimenti dei patrimoni sarebbe stato assurdo. Resta un punto di domanda rilevante – le riserve – che il ministro continua a ritenere intangibili, mentre noi sosteniamo che fino a un certo punto la riserva è garanzia di sostenibilità, oltre rischia di essere sovrabbondante. Si rischia di aumentare le aliquote agli iscritti in modo molto forte semplicemente perché non si deve mai toccare il patrimonio. Ma se lo tocco per un numero di anni limitato e lo erodo in modo non sostanziale, questo, secondo noi e secondo il Consiglio nazionale degli Attuari (che ha scritto una lettera al ministro in questo senso), deve essere fatto.

Esiste un problema di solvibilità e d’insufficiente contribuzione da parte degli associati alle Casse?

Il problema di solvibilità, come ho detto, non c’è. Ci sono altri problemi. L’insufficiente contribuzione in molti casi esiste, nel senso che bassa contribuzione porta a basse pensioni. L’aliquota del 10, del 12% è oggettivamente molto bassa, laddove ci sia. La necessità di elevare le aliquote è evidente; molte categorie lo stanno facendo, perché se non eleviamo le aliquote l’attesa pensionistica, magari in un equilibrio totale, è molto bassa.

Detto questo, ricordo che i professionisti si pagano interamente l’aliquota; mentre un dipendente paga circa un terzo del contributo previdenziale e i due terzi sono a carico del datore di lavoro, qui, se elevassi l’aliquota dal 12-13 al 30% da un giorno all’altro, insisterei completamente sulle tasche del lavoratore. Detto questo c’è la necessità di elevare le aliquote in modo graduale e molti lo hanno fatto. Elevare le aliquote significa dare più sostenibilità ma anche pensioni migliori.

Giorni fa ha dichiarato che la vera sfida sarà quella di trovare una nuova forma di welfare, perché nel tempo ci sarà bisogno di una nuova forma di assistenza che però non sarà supportata dallo Stato. Può argomentare brevemente su questo?

L’idea è quella di creare una fiscalità di vantaggio. Oggi siamo tassati al 20%, come qualsiasi Fondo speculativo, e invece siamo delle Fondazioni senza scopo di lucro che erogano pensioni. Allora trovarci al 20%, con i Fondi di secondo pilastro all’11,5%, già questo produce un gap. Ma dico di più: ridurre la fiscalità non significa far mancare afflusso allo Stato, significa coprire quelle prestazioni che lo Stato non potrà mai dare, non autosufficienza, lungo degenza. Quando avremo una popolazione molto più anziana – e questo lo dice il ministero del Lavoro – avremo un problema grave: pensioni più basse dovute alla maggiore sostenibilità e difficoltà da parte dello Stato a coprire dei servizi assistenziali essenziali. Lì noi oggi possiamo costruire un sistema di Welfare articolato che vada a coprire queste esigenze e quindi vada anche in soccorso allo Stato. Non è una diminuzione di fiscalità a favore di una tenuta di prestazioni migliore.

Per chiudere, che dialogo avete stabilito con la Commissione di vigilanza sui Fondi pensione, Covip, sotto la cui giurisdizione rientrano da poco anche le Casse?

Il presidente Finocchiaro è stato fin dall’inizio molto disponibile. Il dialogo c’è, ma la Covip aspetta i decreti che le attribuiscono le funzioni. Nell’interlocuzione con i ministeri dell’Economia e del Lavoro abbiamo ragionato su una consultazione pubblica. Rivera, direttore generale della sezione del ministero del Lavoro che si occupa di questo, ha detto pubblicamente che, secondo lui, bisogna produrre una bozza da mettere in consultazione sui poteri da affidare alla Covip. Che, secondo noi, devono essere sostanziali, ma non sovrapposti ad altri. Altrimenti si rischia di avere tante vigilanze e nessuna vigilanza. Quello che a noi interessa è averne una efficace, non moltiplicata inutilmente. Ora tutto è stato rallentato dal cambio di governo, però pensiamo che si debba dialogare su questo tema. Vogliamo essere vigilati, ma in modo corretto.

Per concludere?

Vorrei aggiungere una cosa. In questo Paese si continua a ragionare della previdenza come di una variabile indipendente. Dobbiamo spostare lo sguardo anche sul mercato del lavoro, sulla crescita. Non c’è previdenza senza redditi, senza lavoro. Un Paese in recessione è un Paese che mette in difficoltà le pensioni, i redditi, le famiglie e i consumi. La missione certo è quella di dare le pensioni, ma non è una missione aprioristica. Per questo ragionare della crisi, del futuro dei giovani, è un fatto dirimente per la tenuta del sistema. Di questo spero di parlare con il ministro Fornero nelle prossime settimane in modo da focalizzare un ventaglio più ampio di problemi, senza sfuggire alle nostre responsabilità.