Rapporto Cnel: l’Italia fanalino di coda

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Negli anni Settanta l’Italia era al primo posto per crescita della produttività, nel Duemila chiudiamo la classifica. Nel decennio 1970-1979 , il Bel Paese era posizionato meglio del Giappone (5,4%), dell’Olanda (5,2%), della Francia e della Germania (intorno al 4%) e molto meglio dei padroni del mondo, gli Stati Uniti (2,7%), e della culla della rivoluzione industriale, il Regno Unito (2,4%). Negli anni Ottanta gli inglesi erano però balzati al primo posto con una crescita della produttività del 4,4%, l’anno mentre l’Italia era scivolata in coda, dimezzando il ritmo precedente (dal 6,5% al 3,2%). Negli anni Novanta la leadership fu conquistata dagli Stati Uniti, grazie soprattutto alle innovazioni tecnologiche e informatiche (4,3% l’anno) e l’Italia rallentò ancora (2,6%). Ma è nel primo decennio del Duemila, cioè dopo l’introduzione dell’euro, che la produttività nel nostro Paese precipita a un misero 0,4% in media d’anno, contro l’1,8% della Germania, il 2,5% della Francia, il 2,8% dell’Olanda, il 3% del Regno Unito

 

La tabella, come molte altre, è contenuta nelle 350 pagine del Rapporto sul mercato del lavoro, curato da Carlo Dell’Aringa, che domni sarà presentato al Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro presieduto da Antonio Marzano. Se l’Italia non trova un modo di rilanciare la produttività e quindi la competitività, si legge nel testo, possono aprirsi scenari preoccupanti. Tesi sostenuta, negli ultimi giorni, dal Governo Monti che chiede su questo anche uno sforzo a imprese e sindacati,

 

A preoccupare e a rimetterci soprattutto i lavoratori: «Occorre che la politica sappia reagire» sottolineai il rapporto, altrimenti si «potrebbero subire pressioni sulle dinamiche salariali», cioè il rischio è che la produttività venga recuperata tagliando le retribuzioni e si vada incontro a «lunghi periodi di stagnazione dell’attività economica». «Tale scenario – ammonisce il Cnel – come l’esperienza greca ha mostrato ha implicazioni di carattere sociale allarmanti». Servono quindi «riforme strutturali sulla crescita» anche se bisogna sapere che queste, prima che abbiano effetto sul prodotto interno lordo, richiedono «dei tempi, sovente molto lunghi».

 

Ma quale sono le cause? Gli anni Duemila hanno visto la globalizzazione dell’economia, l’aumento della competizione internazionale, l’introduzione dell’euro, che per l’Italia ha significato, tra l’altro, l’impossibilità di svalutare come avveniva prima con la lira. Tutto ciò ha provocato un «andamento ampiamente divergente fra le economie dell’area euro dei tassi di crescita del costo del lavoro per unità di prodotto» (Clup), cioè quanto costa produrre un bene o servizio. Nel primo decennio del Duemila questo costo è salito in media del 2,7% l’anno in Italia. In Germania appena dello 0,2%, in Olanda dello 0,5%, in Francia dello 0,6%. «La perdita di competitività dell’Italia rispetto alle altre economie dell’area euro è stata significativa, oltre il 2% all’anno. Un tale divario, cumulato in dieci anni, comporta una perdita complessiva di oltre il 20%, difficilmente sostenibile nel medio termine».

Come recuperare competitività? Difficile ridurre il gap frenando la dinamica salariale in Italia, visto il basso livello medio delle retribuzioni, anche se va osservato che i salari reali (cioè al netto dell’inflazione) nel nostro Paese sono cresciuti nel primo decennio del Duemila in media dello 0,9% l’anno contro lo 0,5% della Germania, dove la concertazione tra le parti sociali si è tradotta in una «stagnazione dei salari reali durante l’intero scorso decennio». Eppure, ammonisce il rapporto, «senza una svolta dal versante della produttività, potrebbero prevalere pressioni deflazionistiche sui salari e sui redditi interni, assecondate da politiche fiscali di segno restrittivo», che in fondo è un po’ quello che sta avvenendo. Con quale esito? «Il rischio paventato negli scenari più pessimisti è che tali pressioni risultino di intensità tale da mettere in dubbio la stessa persistenza nella moneta unica».

Alla fine, spiegano gli esperti, ci troviamo in una sorta di circolo vizioso: servirebbero investimenti per rilanciare la crescita ma non ci sono risorse proprio perché c’è recessione. «È palese che ancora per diverso tempo i Paesi della periferia tenderanno a perdere terreno, dato che la crisi limita le opportunità per nuovi investimenti, un passaggio necessario per qualsiasi recupero di efficienza. La caduta degli investimenti caratterizza non solo il settore privato, ma anche il pubblico, visto che le esigenze di bilancio si traducono in minori risorse da destinare al rafforzamento della dotazione infrastrutturale. Si ricade quindi pienamente in una situazione che giustifica un allargamento del gap di produttività fra i paesi della periferia europea e le economie dell’area tedesca».

E per quanto riguarda il mercato del lavoro, la ricerca sottolinea come stiano aumentando i lavoratori a tempo parziale involontari, «ovvero coloro che lavorano part time perché non hanno trovato un lavoro a tempo pieno». Ma «in molti casi gli impianti sono ampiamente sottoutilizzati e questo non può a sua volta che influenzare negativamente l’andamento della produttività». E in prospettiva «vi è il rischio che le imprese si riorganizzino adattandosi ai nuovi livelli produttivi permanentemente più bassi, attraverso ristrutturazioni della produzione, o anche vere e proprie chiusure di stabilimenti». Nonostante tutto ciò, nel 2011, c’è stato un modesto aumento dell’occupazione: 96 mila posti in più rispetto al 2010, risultato di 110 mila donne in più e 14 mila uomini in meno. Ma gli occupati crescono soprattutto tra gli anziani. Nella fascia tra i 45 e i 64 anni si sono avuti 330 mila posti in più mentre in quella tra i 15 e i 34 anni si sono persi quasi 200 mila lavoratori.

Ma c’è l’altra faccia della medaglia. «Se poi si allarga lo sguardo a un periodo più ampio, confrontandosi con i livelli pre crisi del 2008 – si legge nel rapporto – si osserva come si sia perso oltre un milione di occupati fino ai 34 anni». Dipende dal fatto che la società invecchia e quindi le classi d’età giovani sono meno numerose e dalla riforma delle pensioni che allunga la permanenza al lavoro (in prospettiva fino a 70 anni). Se la crescita non ripartirà, a farne le spese saranno soprattutto i giovani, che si dovranno confrontare con un mercato del lavoro con poche opportunità per i nuovi entranti».