Ocse, nel 2014 la disoccupazione al 12,8%. Debito al 134,3%

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 mentre il Pil si fermerà allo 0,5% dopo lo 0,6% prospettato lo scorso novembre, queste le stime dell’Ocse nel suo Economic Outlook. Gli 80 euro in più in busta paga voluti dal governo di Matteo Renzi non sembrano essere riusciti ad invertire la rotta.

Per quanto riguarda il rapporto tra debito e Pil, per vedere un calo bisognerà attendere il 2016: l’Ocse prevede un debito al 134,3% nel 2014 e al 134,5% nel 2015. Ciò rende il Paese “ancora vulnerabile a potenziali scossoni” dei mercati, ed è quindi“ essenziale continuare con la cautela sui conti pubblici basata sulla riduzione della spesa”.

Per gli esperti dell’Ocse anche i debiti della Pubblica amministrazione giocano un ruolo importante nella stabilità economica del Paese, come spiega Alvaro Pereira, responsabile del dipartimento studi nazionali dell’organizzazione, durante la presentazione del report: “Uno dei maggiori effetti negativi della crisi è stata la contrazione del credito, soprattutto per le piccole e medie imprese, cosa che è diventata una delle principali cause dell’ampio aumento della disoccupazione in questo contesto, ciò che i governi possono fare, quando ne hanno i mezzi, è pagare i loro debiti con le aziende, in particolare le più piccole, e fornire così loro un pò di capitale, che consenta di fare investimenti e creare posti di lavoro”.

E proprio la disoccupazione gioca un ruolo drammatico e su questa bisogna intervenire. Sono prioritari interventi che «rimuovano gli ostacoli a una più robusta creazione di posti di lavoro e rafforzino e ridisegnino le politiche attive del mercato del lavoro».

I governi del mondo sono quindi chiamati ad accelerare sul cammino delle riforme strutturali per rafforzare la crescita e il mercato del lavoro. È quanto afferma il vice segretario generale dell’Ocse, Rintaro Tamaki, nell’editoriale che apre la nuova edizione dell’Economic Outlook dell’Ocse. «Le maggiori economie avanzate stanno finalmente prendendo slancio, si sta ripristinando la fiducia nel settore privato e, dopo anni di debolezza, gli investimenti e il commercio hanno iniziato a riprendersi», si legge nell’editoriale, «se la disoccupazione resta inaccettabilmente alta, la situazione del mercato del lavoro in molti paesi sta migliorando e ha smesso di deteriorarsi nelle economie avanzate». 

 «D’altro canto», prosegue Tamaki, «il ritmo di crescita nei maggiori mercati emergenti ha rallentato», una frenata che è in parte ciclica e «benigna», dato che «i tassi di crescita visti ora in Cina sono senza dubbio più sostenibili, dal punto di vista sia economico che ambientale, di quelli a due cifre di pochi anni fa», sebbene i rischi derivanti dal ritiro delle misure di allentamento quantitativo attuate dalle banche centrali «potrebbero rivelarsi un’enorme sfida». Se sono diminuiti i timori di un collasso dell’area euro, proprio «le tensioni finanziarie sui mercati emergenti potrebbero far deragliare la ripresa globale», fattori di rischio che si aggiungono ai pericoli di deflazione nell’Eurozona e alle tensioni geopolitiche, in un quadro dove «l’eredità della crisi deve ancora essere affrontata». 

 «Una delle grandi lezioni della crisi è la necessità di rendere le nostre economie e società più resistenti, e più inclusive, con una migliore distribuzione del welfare tra la popolazione», afferma Tamaki, che invita i governi a «cogliere l’opportunità di porre la crescita globale su un cammino più forte e sostenibile», nonostante il «minore capitale politico». È infatti «il tempo di accelerare il ritmo delle riforme strutturali» che, «per quanto spesso incontrino la resistenza di interessi correnti», possono «aumentare il potenziale di crescita e consentire a molti tra i più poveri di raggiungere standard di vita più elevati». 

Lo spazio di manovra invece rimane ristretto dal punto di vista fiscale, alla luce degli «elevati livelli di debito pubblico in tutte le grandi economie avanzate». Nondimeno, «i significativi progressi nella stabilizzazione dei conti pubblici» lasciano molti paesi dell’area Ocse «in grado di permettersi il previsto rallentamento del miglioramento del bilancio strutturale».