Autonomia. Verbaro: “Le Casse di previdenza non sono state monitorate secondo parametri di performance ma logiche formali”.

781

di Francesco Verbaro

Da alcuni anni assistiamo ad un fenomeno che sta interessando molti enti e soggetti di natura privata che svolgono funzioni pubbliche o che esercitano attività di interesse pubblico. Soggetti come le società partecipate, i fondi interprofessionali o le casse di previdenza dei liberi professionisti sono stati interessati da quel processo di “ripubblicizzazione” che negli ultimi anni ha riguardato tutti gli enti che hanno avuto un forte grado di autonomia e ai quali il legislatore ha delegato delle funzioni o attività pubbliche, soprattutto a partire dagli anni ’90, non senza diffidenze e timori.

Assistiamo oggi ad un percorso inverso rispetto a quello promosso dal legislatore agli inizi degli anni ’90, con processi di privatizzazione e con deleghe di funzioni a soggetti privati in attuazione del principio di sussidiarietà, dettato dalla “sfiducia” nei confronti dell’utilizzo della flessibilità da parte dei soggetti privati in vario modo delegati ma anche, come diremo, dalla difficoltà di ridisegnare la funzione dello Stato.

Questo “revirement”, che ha riguardato società partecipate, fondi interprofessionali e alcune ppaa rispetto ai gradi di autonomia concessi negli anni ’90 (es. contrattazione collettiva, lavoro flessibile, autonomia di bilancio), ha portato ad introdurre una serie di controlli formali riportando le lancette del tempo a prima degli anni ’90, trascurando di fatto parametri economici o di performance. Per cui i soggetti “ripubblicizzati” si sono stati investiti, nell’ultimo decennio, da una serie di vincoli e dall’estensione delle norme sulla PA che hanno prodotto più adempimenti burocratici che il miglioramento del sistema. Il ricorso agli schemi e strumenti del diritto privato avrebbe richiesto uno strumentario adeguato e moderno di controlli, che lo Stato non è riuscito a realizzare. Ciò è accaduto anche con riferimento a tutti i fenomeni di delega, concessioni, accreditamento con particolare riferimento a temi sensibili come il welfare o la protezione dell’ambiente.

L’autonomia concessa a soggetti precedentemente pubblici o la delega di funzioni a soggetti privati non è stata monitorata e valutata in termini di efficacia, ma vista con sospetto e appena possibile compressa non sapendola valutare.

Le società partecipate, i fondi interprofessionali o le casse di previdenza quindi non sono state monitorate, valutate e controllate secondo parametri di performance, ma secondo logiche formali.

In generale, la perdita di importanza della personalità giuridica in favore della funzione e delle attività ha fatto emergere il profilo sostanzialista della natura pubblica. Occorre dire però che i maggiori oneri e adempimenti, paradossalmente, non sono emersi per il profilo pubblicistico derivante dalla funzione o attività svolta, ma per una serie di profili che potremmo definire secondari, come appartenere all’elenco Istat oppure essere organismo di diritto pubblico.

La normativa comunitaria ha infatti introdotto alcune definizioni di pubblico che sono state eccessivamente enfatizzate, per non dire strumentalizzate, dal legislatore italiano nonché dagli apparati amministrativi di controllo, tra le quali l’organismo di diritto pubblico e la definizione finanziaria di PA (Sec 2010).

A queste definizioni di “pubblico”, occorre aggiungere quelle contenute nel Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 82/2005) oppure nella normativa in materia di trasparenza (d.lgs. 33/2013), le quali fanno riferimento per l’ambito di applicazione a soggetti che “esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici”, prescindendo dalla natura della personalità giuridica.

Grazie anche a questa “pluripubblicità” acquisita per stratificazione di interventi successivi nel tempo e ad una scarsa attenzione dei ministeri vigilanti, il quadro di riferimento è divenuto caotico, colmo di contraddizioni e certamente disorientante. Il rischio è infatti quello di indirizzare detti enti e la loro organizzazione più verso l’attenzione alle procedure e alle forme che ai risultati della loro azione. Impossibile, inoltre, pensare di orientare e razionalizzare dei settori solo sulla base del rispetto di norme formali e di procedure, prescindendo dalla prestazione.

Di fatto un ritorno alla peggiore amministrazione pubblica che si trova a proprio agio nell’introdurre controlli sulla forma piuttosto che sull’efficacia della funzione e sulla qualità dei servizi. Mentre il mainstream della riforma della PA degli anni ’90 era quello di passare “from the red tapes to results”, oggi dei risultati sembra interessare poco a nessuno e quello che importa è l’applicazione di una serie di norme procedurali che tranquillizzano dal punto di vista della forma ma non certamente della sostanza, cioè dei servizi e delle politiche.

La sussidiarietà orizzontale e la delega di funzioni che si sono affermate negli anni ’90, per rispondere con flessibilità ed efficacia alle nuove istanze economiche e sociali, avrebbero richiesto un settore pubblico diverso, attento ai contenuti e non alle procedure, e quindi dotato di strumenti e competenze diverse. Il passaggio dallo Stato erogatore allo Stato regolatore avrebbe dovuto comportare quindi il “famoso” cambiamento culturale, che ormai invochiamo continuamente ogni volta che parliamo delle vere riforme o del fallimento delle stesse.