Lo studio. Il nuovo welfare? Proteico e resiliente

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Giunto alla sua terza edizione, lo studio “Percorsi di welfare” (in allegato), nella prefazione a firma Salvatore Carruba presidente del Centro Einaudi,  parla di un “welfare  proteico e resiliente, capace di onorare gli obiettivi di solidarietà sociale che ne costituiscono l’essenza pur al manifestarsi di situazioni nuove e di forme inedite di debolezze e di crisi. In questo senso, il nuovo welfare si conferma strumento irrinunciabile per rinnovare e rafforzare il patto sociale altrimenti minacciato da spinte populiste che rischiano di corrodere irreparabilmente la democrazia”.

“Non c’è infatti da illudersi che, cessata (speriamo!) la grande paura dopo la devastante crisi finanziaria degli scorsi anni – scrive Carruba –  le rivoluzioni in atto legate all’economia della conoscenza, alla inarrestabile diffusione di robot e intelligenza artificiale, all’impatto della quarta rivoluzione industriale non determino ora nuove poderose sfide, per esempio, alla concezione stessa del lavoro e alle modalità di svolgimento durante l’intera vita dei cittadini del pianeta”.

Il fatto che i sistemi di welfare europei abbiano dovuto confrontarsi con nuove sfide demografiche, sociali e culturali e insieme con le politiche di austerità ha agito da incentivo ad includere più attivamente attori non pubblici nella definizione ed erogazione di servizi sociali. Il crescente coinvolgimento di stakeholder privati nell’erogazione di misure di welfare e l’utilizzo di strumenti finanziari innovativi sono diventati nell’ultimo decennio elementi indispensabili per affrontare in modo efficiente e sostenibile i problemi sociali.

E per tornare ai dati secondo lo studio “Oltre 447miliardi di euro è quanto spende lo Stato italiano per il welfare, tra pensioni, sanità, assistenza sociale e politiche del lavoro. Se si sommano anche le spese dedicate ad esclusione sociale, famiglia e housing, oltre a costi di funzionamento degli enti che gestiscono le varie funzioni di welfare, il nostro Paese impiega su questo fronte quasi il 30% del proprio Prodotto interno lordo. Si tratta di una percentuale superiore alla media dei 28 Paesi UE (28,7%) e inferiore solo a quelle di Danimarca, Francia e Finlandia.

Ma quali sono i settori dove la richiesta di welfare è maggiore e per coprire cosa? I cittadini chiedono soprattutto servizi sanitari. A seguire, servizi per l’infanzia e l’istruzione come i rimborsi per i testi scolastici, la mensa, le rette per asili nido. Nell’ultimo anno sarebbero aumentate anche le richieste di carte benzina, o cofanetti utili a ottenere sconti su soggiorni in hotel, abbonamenti in palestra, ingressi ai centri termali. Infine, c’è chi opta per la previdenza complementare. Anche se la maggior parte degli intervistati, si aspetta ancora che le pensioni siano a carico dello Stato, pagate con i contributi versati. Marginali, secondo i dati pubblicati dal Centro Einaudi, le domande per le prestazioni di sostegno alla non autosufficienza. «Troppe famiglie – scrivono i ricercatori – scelgono di non regolarizzare i rapporti di lavoro con il personale che si occupa dell’assistenza ad anziani e disabili finendo così per non poter essere pagati o rimborsati tramite il circuito dei provider di welfare aziendale».

E se i dati pubblicati smentiscono il luogo comune secondo cui l’Italia spende meno degli altri Paesi per il welfare i curatori del report pongono un’altra questione ossia “perché negli ultimi anni il nostro sistema sociale è spesso apparso incapace di fronteggiare in maniera efficace molti bisogni dei propri cittadini? “.

Ed ecco la risposta.

“C’è anzitutto un problema di squilibrio interno. Abbiamo un eccesso di spesa per pensioni e sanità, mentre investiamo poco o niente in servizi dedicati a famiglia, inclusione sociale, lavoro femminile e formazione. Questioni che, forse, potrebbero essere affrontate attraverso nuovi investimenti, i quali tuttavia appaiono difficilmente realizzabili vista l’attuale situazione economica (pur considerando i positivi segnali di ripresa degli ultimi mesi) e l’ingente debito pubblico accumulato dal nostro Paese (132,6% nel 2016), che impongono vincoli di bilancio che poco plausibilmente potranno essere sciolti negli anni a venire”.

Problematiche alle quali il “secondo welfare” sta cercando di dare o costruire risposte grazie ad interventi pensati, sviluppati e implementati da soggetti privati, sia profit sia non profit, che vanno a coprire i gap lasciati dal welfare pubblico, dallo Stato.

Si tratta di azioni messe in campo da imprese, assicurazioni, banche, fondazioni, cooperative, imprese sociali, gruppi di volontari e altre realtà del Terzo Settore, nonché associazioni datoriali, organizzazioni sindacali e enti bilaterali o privati (vedi le Casse di previdenza private e privatizzate.

“Siamo arrivati al punto in cui è necessario smettere di pre-giudicare il secondo welfare – scrivono i curatori della ricerca –  come programmaticamente erosivo rispetto al primo, a rimanere aperti, tanto sul piano descrittivo che su quello valutativo, rispetto al contributo positivo che esso può dare alle chance di vita dei cittadini in questa nuova fase storica di ri-sperimentazione del welfare e dei suoi modelli”.