Itinerari previdenziali e le politiche di finanziamento del welfare

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“Questo Settimo Rapporto si pone l’obiettivo di fornire la dimensione finanziaria delle entrate contributive e fiscali che finanziano il nostro welfare nelle sue tre principali componenti: pensioni, assistenza sociale e sanità pubblica e le relative uscite per le prestazioni. Un’aggregazione di dati necessari per comprendere gli andamenti delle forme di protezione sociale analizzati non solo a livello nazionale, ma scomposti per singola Regione come peraltro richiederebbe la procedura di comunicazione dell’Unione Europea” questo l’incipit del rapporto elaborato dal centro studi di Itinerari previdenziali e presentato nei giorni scorsi a Roma.

L’analisi, che fotografa i trend degli ultimi 42 anni attraverso la lente del sistema previdenziale e assistenziale, è relativa alle gestioni private INPS (lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, imprenditori agricoli e parasubordinati) per il periodo compreso tra il 1980 e il 2010; a partire dal 2011, la gestione ricomprende anche i dati relativi a IPOST e dal 2013 quelli di ENPALS confluiti in INPS. Dal 2001, poi, è iniziata la regionalizzazione delle gestioni pubbliche gestite da INPDAP fino al 2011 e successivamente confluite in INPS, con una gestione contabile autonoma e separata. Completano infine il quadro degli enti previdenziali di primo pilastro le Casse privatizzate dei liberi professionisti.

E andiamo a leggere i dati.

Nel 2021 (ultimo anno di rilevazione al momento disponibile) il bilancio pensionistico/previdenziale del Paese – inteso come differenziale delle entrate e uscite delle gestioni INPS privati, INPS ex INPDAP per i dipendenti pubblici e delle Casse di Previdenza dei liberi professionisti – ha mostrato un disavanzo di 48,68 miliardi, in miglioramento rispetto ai 55,034 del 2014, anno di riferimento della precedente Regionalizzazione. Valore comunque consistente anche se, nei flussi di cassa presi a riferimento, non sono considerati i trasferimenti dallo Stato, attraverso la GIAS o da altri enti, a favore di prestazioni assistenziali o di sostegno alle famiglie, così come sono escluse eventuali contribuzioni figurative dovute ad agevolazioni e sgravi.

Nel dettaglio, le entrate totali sono ammontate a 200,3 miliardi, con un miglioramento del 12,23%, mentre le uscite sono state pari a 248,99 miliardi, in crescita del 6,6% rispetto al 2014.  Guardando alla ripartizione per macroarea, si evidenzia la netta prevalenza del Nord, che vale oltre il 58% delle entrate e il 53% delle uscite; il Sud contribuisce per il 21% circa ma spende oltre il 26%, mentre il Centro presenta entrate contributive e uscite per prestazioni simili, intorno al 21%.

I tassi di copertura tra Regioni

Nel 2021, a livello nazionale, il tasso di copertura risulta pari all’80,45%, in miglioramento rispetto alla rilevazione precedente (76,43%). Se la soglia del 75% è complessivamente superata, persistono però anche in questo caso gravi squilibri a livello territoriale. In particolare, tutte le regioni del Sud segnano livelli in crescita piuttosto bassi: la media è del 62,25%, con la Calabria che raggiunge un modesto 49,98%; popoco meglio ma comunque sotto la media del Mezzogiorno anche Sicilia, Molise, Puglia e Basilicata (circa 60%).

Fa segnare un 81,53% il Centro, mentre il Nord tocca quota 88,96%, con buone performance soprattutto per Trentino (unica Regione pienamente autosufficiente con il 103,1%), Lombardia (99,66%), Veneto (95,51%) Lazio (90%) ed Emilia-Romagna (87,39%).

Interessante, tuttavia, rimarcare come Piemonte e Liguria siano le uniche due regioni settentrionali posizionate,rispettivamente con il 72,92% e il 64,83%, al di sotto della soglia del 75%. In effetti, l’andamento dei tassi di copertura nel tempo lascia supporre come Nord e Centro possano aver risentito più del Sud delle modifiche strutturali della popolazione e, nello specifico, del suo progressivo invecchiamento. T

Cosa occorre fare?

Secondo Itinerari previdenziali, l’Italia necessita di una profonda inversione del modello fiscale basato soprattutto su una lotta serrata alla criminalità organizzata che strozza il Paese, e poi:

welfare: anzitutto introducendo un plafond unico per il welfare: previdenza, sanità, LTC, asili nido, ecc.) da far spendere alla famiglia sulla base delle esigenze che via via la vita presenta, per incentivare i cittadini a dotarsi di un welfare integrativo per avere più servizi e meno costi. Aderire ad un fondo di assistenza sanitaria integrativa fa costare le visite specialiste da metà a un terzo in meno, ma soprattutto elimina il sommerso, accelera i tempi, riduce le liste d’attesa, premia i medici migliori e in definitiva garantisce una sanità migliore ad un minor costo. La quota di adesione a questi fondi è già oggi totalmente deducibile e quindi non ci sarebbero eccessivi costi per le finanze pubbliche, peraltro compensati da minor spese in welfare state e dal recupero fiscale delle molte attività sommerse legate a questo settore;

fisco: invertendo i termini dell’intervento pubblico: la regola non può più essere “meno dichiari, più basso è il tuo reddito e più ti offro agevolazioni (gratis mensa, trasporti, casa, sanità ecc.)”, ma dev’essere: “più dichiari e più deduci e quindi meno tasse paghi”. L’intervento assistenziale, doveroso in un Paese civile, deve essere fatto, ma solo dopo una robusta “prova dei mezzi” con verifica della situazione socioeconomica del soggetto richiedente (fedina penale compresa);

per far questo occorre introdurre il “contrasto di interessi” per far sì che i circa 7 milioni di lavoratori indipendenti e i 5 milioni di italiani che hanno un doppio lavoro (il secondo è in nero in base ai dati di Istat) facciano meno nero quando forniscono in modo diretto 25,7 milioni di famiglie italiane;

come accade in molti Paesi Ocse, occorre che l’Agenzia delle Entrate, incrociando i dati anagrafici con quelli fiscali, chieda a chi ha più di (supponiamo) 35 anni e non ha mai fatto una dichiarazione dei redditi, di che cosa vive. Forse al Sud ma anche in altre parti d’Italia, scopriremmo qualche centinaio di migliaia di mafiosi, camorristi, ndranghetisti e adepti della Sacra Corona Unita ai quali paghiamo, alla fine dell’onorata carriera, una pensione; sarebbe un bel modo per fare davvero la lotta all’evasione fiscale;

realizzare l’anagrafe generale dell’assistenza dove confluiscono per codice fiscale e aggregati familiari tutte le forme di assistenza in servizi e denaro fornite da tutti gli enti (Stato, Regioni, Comuni, comunità montane, Province ed Enti caritativi).

Ridurre a non più di 3/5 mesi i sussidi di disoccupazione poiché troppi mesi di sussidio senza strumenti per reinserire i lavoratori sono una droga come lo fu l’assegno di cittadinanza

Conclusioni

Il Rapporto si conclude con “l’auspicio che vengano presto varate anche in modo bipartisan politiche economiche che mirino, nell’arco di un decennio, a far sì che tutte le regioni italiane siano autosufficienti almeno al 75%, lasciando il finanziamento dell’altro quarto di spesa ad un fondo di solidarietà nazionale”.

“In questa situazione e con questo rinnovato senso di responsabilità, molti problemi occupazionali, di sicurezza e di competitività sarebbero risolti. Ignorare i dati contabili di ciascuna regione e non “cantierare” interventi infrastrutturali e politiche che con gradualità tendano a responsabilizzare ogni singola realtà territoriale ricomprendendo anche il contrasto al lavoro sommerso e all’evasione fiscale, non crea certamente le condizioni per un miglioramento dello sviluppo e della competitività. Rafforzare le ZES (Zona Economica Speciale) e introdurre al Sud Zone di accoglienza sociale per i pensionati europei, sul modello portoghese, aiuterebbe moltissimo l’occupazione soprattutto di giovani e donne. “In questo rapporto abbiamo cercato di tracciare un percorso, di lanciare il classico “sasso nello stagno” mostrando in modo onesto i dati disponibili; lo abbiamo fatto perché come tanti amiamo questo Paese e ci piacerebbe vederlo diverso e più efficiente”.