Dal Bilancio alla certificazione di genere

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Se l’Inapp ha pubblicato le linee guida per redigere il Bilancio di genere e l’Unione europea pensa di elaborare il primo entro il 2023, il Governo italiano ha deciso di mettere in campo la “Certificazione di genere” che dovrebbe diventare effettiva entro la fine del 2022. Decisioni che sottolineano l’esigenza di combattere un fenomeno che non ha confini. I gap subiti dalle donne, sia per quanto riguarda i redditi sia le posizioni apicali, inducono i Governi e le istituzioni a seguire un cammino diverso. Ma che cosa è un Bilancio di genere e cosa invece la Certificazione per la parità di genere?

Il Bilancio di genere è un metodo di analisi che “mira a promuovere la parità di genere attraverso la valutazione dell’impatto delle risorse pubbliche sulle donne e degli uomini. Dopo essere stato oggetto di studio e di applicazione da più di 40 anni in tutto il mondo, oggi questo strumento ha raggiunto un punto importante nel proprio percorso evolutivo, grazie all’impegno dell’Unione Europea di sviluppare il proprio e primo Bilancio di genere entro il 2023 (European Parliament, 2021)”.

“L’esigenza di questo tipo di analisi nasce dalla considerazione che il bilancio non è uno strumento neutro – si legge nella prefazione delle linee guida –  ma riflette la distribuzione di potere esistente nella società: nel definire le politiche di entrate ed uscite il soggetto pubblico, ad ogni livello, effettua delle scelte politiche che poi vengono tradotte nella dimensione monetaria. Il bilancio è quindi uno strumento chiave con il quale un’amministrazione pubblica come è anche il caso di un EPR definisce il proprio modello di sviluppo e di distribuzione delle opportunità ai propri beneficiari e ai propri stakeholder interessati dalle decisioni. Il modo in cui i bilanci pubblici sono normalmente costruiti ignora infatti la diversità, per ruolo, responsabilità e capacità, esistente tra uomini e donne. Presentandosi come uno strumento economico neutro, il bilancio pubblico in realtà riflette e riproduce così le disuguaglianze socioeconomiche già presenti in una comunità, come può essere anche una comunità scientifica e di ricerca

Sulla base della letteratura e delle numerose sperimentazioni condotte ad oggi, il Bilancio di genere è articolato in 5 parti: Identità di genere dell’Ente, Analisi di contesto, Analisi della programmazione e della pianificazione,  Riclassificazione di bilancio e Analisi di genere delle attività dell’EPR. Per ciascuna di queste occorre valutare in corso d’opera, a seconda della disponibilità di dati e della partecipazione, la possibilità di adottare un approccio generale che coinvolga tutto l’ente e/o un approccio mirato che scenda in profondità su alcuni temi/ambiti/gruppi di lavoro con focus specifici.

La certificazione per la parità di genere

Il sistema dovrebbe entrare in vigore entro la fine del 2022 e l’obiettivo posto dal PNRR è avere entro il 2026 almeno 800 imprese certificate, ovvero che soddisfano i criteri individuati dal documento UNI per misurare concretamente le azioni aziendali in materia di inclusività ed equilibrio di genere.

Sei le aree di valutazione: cultura e strategia, governance, processi HR, opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda, equità remunerativa per genere e infine tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro. Ciascuna di queste aree ha un peso percentuale (il totale è 100) e include degli indicatori di performance qualitativi o quantitativi, che in alcuni casi verranno applicati secondo un principio di proporzionalità in base a quanto è grande l’azienda che richiede la certificazione. Il sistema infatti si applica dalle micro-organizzazioni (1-9 dipendenti) fino alle multinazionali.

Un esempio pratico: nell’area governance uno degli indicatori è la presenza di un budget per lo sviluppo di attività a supporto della parità di genere, associato a un punteggio di 15 punti. Nell’area processi HR, invece, tra gli indicatori ci sono la presenza di meccanismi di protezione del posto di lavoro e dello stesso livello retributivo post-maternità (15 punti) e la presenza di prassi di tutela in caso di molestie o mobbing (10 punti). E ancora, nell’area opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda vale 20 punti la presenza di donne responsabili di una o più unità organizzative pari ad almeno il 40% totale di chi ricopre tale ruolo. Per accedere alla certificazione di parità di genere l’impresa deve avere un punteggio minimo del 60% ed è poi previsto ogni due anni un controllo dei processi avviati e degli eventuali progressi. La prassi di riferimento, tra l’altro, indica anche quali caratteristiche dovranno avere gli organi di certificazione: oltre a essere accreditati da Accredia, l’ente unico nazionale di accreditamento designato dal governo, questi organismi dovranno rispettare a loro volta i contenuti della prassi, ovvero impegnarsi per primi a raggiungere gli obiettivi di parità di genere.

La parità di genere

Secondo la definizione condivisa dall’EIGE a livello Europeo (EIGE, 2017), la parità di genere (Gender Equality) può essere definita come: “..la parità di diritti, responsabilità e opportunità di donne e uomini, ragazze e ragazzi. Parità non significa che donne e uomini diventino uguali, ma che i diritti, le responsabilità e le opportunità delle donne e degli uomini non dipenderanno dal fatto che nascano maschi o femmine. La parità di genere implica che gli interessi, i bisogni e le priorità di donne e uomini siano presi in considerazione, riconoscendo la diversità dei diversi gruppi di donne e uomini. L’uguaglianza di genere non è una questione femminile, ma dovrebbe riguardare e coinvolgere pienamente gli uomini e le donne. La parità tra donne e uomini è vista sia come una questione di diritti umani sia come una condizione preliminare e un indicatore di uno sviluppo sostenibile incentrato sulle persone”.