Il 52% degli investitori istituzionali è “ESG”

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Più di un investitore istituzionale italiano su due investe sostenibile. Una parte consistente di coloro che non hanno ancora aderito “formalmente” alla finanza Sri ha però in portafoglio prodotti Esg. È quanto emerge dalla quinta edizione dell’indagine curata dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, in collaborazione con ASviS e FeBAF.

“Insomma – sottolinea nella sua relazione Gianmaria Fragassi del Centro studi –  pur con qualche inevitabile margine di miglioramento, dettato anche da una normativa giovane e in divenire, anche l’economia italiana sta accelerando verso la sostenibilità, di pari passo sia con la legislazione, europea e nazionale”.

Il Rapporto. Abstract

Si mantiene elevata l’attenzione di enti previdenziali, Fondazioni di origine Bancaria e comparto assicurativo nei confronti della sostenibilità: più della metà (il 52%) dei rispondenti alla survey annuale curata dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali dichiara infatti di adottare già politiche di investimento sostenibile. L’80% di quanti ancora non lo fanno ne ha già perlomeno discusso in CdA in ottica futura, mentre un’analisi più approfondita dei portafogli svela l’acquisto di prodotti ESG anche da una parte consistente di quegli investitori che ancora non aderisce “formalmente” alla finanza SRI.

Figura 1 – L’ente adotta una politica di investimento sostenibile 

Figura 1 - L'ente adotta una politica di investimento sostenibile

Fonte: Quaderno di Approfondimento 2023 – “ESG e SRI, le politiche di investimento sostenibile degli investitori istituzionali italiani”

 

Il campione e gli obiettivi della survey

Nell’intento di scattare una fotografia qualitativa e quantitativa del processo di diffusione delle strategie di sostenibilità e integrazione dei criteri ESG nei portafogli finanziari, la pubblicazione – realizzata con il patrocinio di ASviS, Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, e di FeBAF, Federazione Banche Assicurazioni e Finanza – muove le sue premesse dalla somministrazione di un questionario di 58 domande, volte a indagare pianificazione e modalità di attuazione delle politiche di investimento sostenibile da parte dei principali player istituzionali del Paese.

Sono 123 gli enti rispondenti nel 2023, contro i 106 dello scorso anno, per un totale patrimoniale – al netto delle Compagnie di Assicurazione – di oltre 246 miliardi di euro (219 nel 2022), pari a circa l’86,5% dei patrimoni finanziari totali degli investitori, previdenziali e fondazionali, italiani. Nel dettaglio, hanno partecipato: tutte le 19 Casse di Previdenza privatizzate (con esclusione di ONAOSI), per un totale attivo rappresentato di oltre 97 miliardi; 36 Fondazioni di origine Bancaria, con circa 36,6 miliardi di attivo, vale a dire il 77% del totale attivo delle 86 Fondazioni bancarie italiane; 19 fondi pensione preesistenti e 28 negoziali, per un ANDP rispettivamente di 49 (pari a circa il 72% dell’ANDP complessivo) e 63,5 miliardi di euro (il 97% dell’ANDP complessivo); 21 Compagnie di Assicurazione, per un totale investimenti prossimo ai 300 miliardi, rappresentativo di circa il 42% del totale investimenti della classe C (rami Vita diversi dai prodotti Linked e rami Danni).

L’attenzione alla sostenibilità dei player italiani

Nonostante la percentuale di chi risponde “sì” (il 52%) all’adozione di politiche SRI risulti leggermente inferiore allo scorso anno, il questionario conferma una generalizzata crescita degli investimenti sostenibili. «A fronte dell’allargamento del campione, si abbassa la percentuale aggregata ma – puntualizza Gianmaria Fragassi, coordinatore del progetto per il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – si alza il numero di enti virtuosi, 64 sui 123 intervistati. Un ottimo segnale, tanto più che ben 47 dei 59 enti (l’80%) che ancora non applicano una politica di investimento sostenibile ha già affrontato il tema in CdA, con buone prospettive di implementarla nel prossimo futuro». A riprova di un quadro positivo, anche in chiave prospettica, meritano poi attenzione due ulteriori valori percentuali: il primo è quello degli enti che, dopo aver discusso di sostenibilità in Consiglio di Amministrazione sceglie comunque di non approcciare la finanza SRI, pari al 15% solo 3 anni fa e oggi invece pari a 0 (l’opzione non è cioè considerata da nessuno dei rispondenti). Il secondo è quello relativo alla percentuale patrimoniale che vede l’applicazione di politiche ESG: opzione più votata per il quarto anno consecutivo, in questa edizione con il 38% delle preferenze, quella relativa all’intero patrimonio; crescono poi le percentuali intermedie, con il 24% dei rispondenti “sostenibili e responsabili” che si colloca tra il 50% e il 75% del patrimonio (erano il 21% lo scorso anno) e il 17% posizionato tra il 25% e il 50% (erano il 13% nel 2022).

In linea con le precedenti edizioni anche le ragioni che si spingono verso la finanza SRI, a cominciare dalla volontà di contribuire allo sviluppo sostenibile (86%). Se quella etica resta la motivazione preponderante, non vanno comunque trascurate anche ragioni che rispondono a necessità diverse, tra cui quelle squisitamente finanziarie: seguono con il 69% una più efficace gestione del rischio in portafoglio, con il 44% il miglioramento della reputazione dell’ente e dunque, con il 22%, quello di performance e rendimenti. Nella percezione di molti istituzionali, sostengono peraltro lo slancio verso la sostenibilità sia la pandemia da COVID-19 che, per il 76% dei rispondenti, ha favorito un maggior ricorso agli investimenti ESG, sia il conflitto russo-ucraino, altro fattore esogeno che per il 56% dei rispondenti avrebbe rinforzato la corsa della finanza SRI. «Percentuali interessanti soprattutto – commenta Gianmaria Fragassi – se messe in relazione con la convinzione, manifestata da 1 ente su 4, che la componente sostenibile aiuti a contrastare le turbolenze dei mercati in termini di mitigazione del rischio complessivo». Tra le ragioni più citate, ulteriore balzo in avanti infine “per la pressione del regolatore”, che cresce dal 15% al 20%: «segno tangibile – secondo il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – dell’evoluzione normativa, soprattutto comunitaria, che nell’ultimo periodo ha imposto un forte adattamento degli investitori al nuovo contesto regolamentare, talvolta generando anche dubbi e confusione».

 

Sostenibilità e integrazione dei criteri ESG: le strategie degli investitori

Per quanto riguarda il modo in cui le politiche d’investimento sostenibile vengono implementate, l’indagine offre poi uno spaccato sia delle strategie utilizzate sia delle modalità con cui i criteri ESG vengono applicati maggiormente. Con un valore in crescita rispetto al 2022, al primo posto si posizionano per il quinto anno consecutivo le esclusioni (60%), seguite da investimenti tematici (34%) e convenzioni internazionali (33%), che scalzano dal podio l’impact investing (30%). Dopo l’impennata del 2020, quando toccava addirittura il 50% delle preferenze, cala nuovamente la strategia best in class (28%), così come l’engagement (dal 50% del 2020 al 24% del 2023).

Scendendo ancor più nel dettaglio, dalla survey emerge che le esclusioni riguardano soprattutto prodotti collegati al mercato delle armi (93%). Molti anche gli enti che escludono investimenti riconducibili a gioco d’azzardo (64%) e pornografia (62%); ancora in coda la parità di genere, scesa dal 17% del 2022 all’8% del 2023. Se sul versante delle convenzioni internazionali si conferma al primo posto con il 66% delle risposte il riferimento a UNPRI, seguito però molto da vicino dal Global Compact dell’ONU (62%), per quanto concerne la strategia best in class, l’attenzione verso la tutela dell’ambiente raccoglie la prima posizione grazie a riduzione delle emissioni (al 66% ma in forte calo sull’anno precedente); salgono al secondo posto i diritti umani (51%), mentre scende in terza piazza l’efficientamento energetico (49%). «Limitare l’integrazione dei criteri ESG alla sola, seppur rilevante, questione climatica e/o ambientale significherebbe però non inquadrare correttamente la complessità delle scelte di portafoglio degli investitori italiani – puntualizza Fragassi – tanto che, a domanda diretta, i player intervistati confermano sì di trovare la componente Environmental predominante rispetto alle altre, ma con percentuali più omogenee di quanto ci si potesse (forse) aspettare: se l’ambiente raccoglie il 35,3% delle preferenze, la governance tocca quota 32,8% e la componente sociale il 31,8%». Ulteriore dimostrazione arriva dai dati relativi agli investimenti tematici: anche in questo caso, chiara la predilezione per i temi ambientali (dalla mobilità alle infrastrutture) ma comunque significativi gli investimenti in Silver Economy (29%) e RSA (26%).

Tornando alle principali strategie SRI, mentre il social housing (84% delle risposte, contro il 76% dello scorso anno) e i green bond (62%) sono costantemente tra gli ambiti preferiti nell’alveo dell’impact investingsi mantiene stabile tra gli investitori che ricorrono all’engagement l’approccio di tipo softscelto dal 56% dei rispondenti. Interessante però rimarcare l’elevata percentuale registrata a questa domanda dalla risposta “altro” (24%): sono infatti diversi gli enti che specificano come l’attività di engagement non sia svolta direttamente ma per il tramite dei rispettivi gestori. In più casi, poi, entrambe le modalità coesistono all’interno della stessa strategia.

Figura 2 – Quali sono le strategie SRI adottate?

Figura 2 - Quali sono le strategie SRI adottate?

Fonte: Quaderno di Approfondimento 2023 – “ESG e SRI, le politiche di investimento sostenibile degli investitori istituzionali italiani”

L’orientamento verso il futuro e il ruolo della normativa europea

Oltre a fotografare il presente, l’indagine offre qualche spunto sulla possibile traiettoria degli anni a venire. «Traiettoria – spiega il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – che dovrebbe moderatamente tendere verso l’alto: il 51% dei rispondenti afferma di voler incrementare l’investimento in strumenti sostenibili. Il valore è più basso di quello registrato lo scorso anno (68%) ma trova “facile” spiegazione nell’attuale congiuntura economico-finanziaria e, di riflesso, nella scelta di molti istituzionali di voler ponderare le proprie scelte con un atteggiamento quanto più possibile vigile e prudente. A ogni modo, ad attirare l’attenzione in chiave futura sono soprattutto esclusioni (51%) e investimenti tematici, che raccolgono il 49% delle preferenze, seguiti da best in class (47%) e impact investing (42%). Per quanto riguarda invece i settori di maggior interesse meritano di essere segnalate le energie rinnovabili (56%), le infrastrutture sanitarie (36%) e l’healthcare (29%); più staccati tecnologia e Silver Economy, ambito comunque destinato a una forte crescita in considerazione della portata del fenomeno di invecchiamento della popolazione.

Figura 3 – Avete individuato specifici settori dove indirizzare maggiormente i futuri investimenti in chiave ESG?

Figura 3 - Avete individuato specifici settori dove indirizzare maggiormente i futuri investimenti in chiave ESG?

Fonte: Quaderno di Approfondimento 2023 – “ESG e SRI, le politiche di investimento sostenibile degli investitori istituzionali italiani”

A incidere sulle prospettive future della finanza SRI è però oggi più che mai la normativa di settore, cui la survey Itinerari Previdenziali dedica quindi una serie di domande specifiche, con particolare riferimento al regolamento SFDR (e successive implementazioni). «In verità, almeno per il momento, buona parte dei rispondenti (il 63%) ne valuta come limitati gli effetti, pur riconoscendo che, in prospettiva, potrebbe accentuare la propensione verso l’acquisto diretto di fondi ESG», commenta Fragassi, ricordando come molti enti siano ancora in una fase di studio e analisi del quadro legislativo, disponendo solo di un track record limitato a fronte di novità piuttosto recenti. A ogni modo, al momento, il 24% degli investitori istituzionali ha in portafoglio fondi che non rispondono né all’Articolo 8 né all’Articolo 9 (erano però il 39% nel 2022), mentre solo il 4% detiene fondi sia Art.8 che Art.9 di diritto italiano (era l’1% lo scorso anno), a indicare così un trend positivo in chiave prospettica.

Non solo, proprio in virtù della rapida evoluzione normativa, ammonta addirittura al 14% (era il 7% lo scorso anno) la percentuale di enti che giudica come insufficiente la propria conoscenza della regolamentazione sulla sostenibilità; solo il 33% dei rispondenti la valuta come buona o ottima. Ragione per la quale ben 9 enti su 10 palesano la volontà di avviare percorsi di formazione interna. D’altra parte, solo nel 22% dei casi fondi pensione, Casse di Previdenza, Compagnie di Assicurazione e Fondazioni di origine Bancaria dispongono di una figura o di un team interno dedicato agli investimenti ESG, tanto che cresce la consapevolezza di doversi dotare di competenze, ricorrendo anche a risorse esterne. In particolare, con la premessa che ormai anche molti advisor finanziari si sono specializzati sugli aspetti di sostenibilità, il 42% dei rispondenti dichiara di avvalersi di un advisor ESG (+7% sul 2022): tra i più citati, Nummus.info (24%), Prometeia (19%) e Moody’s ESG Solutions (9%).

«Pur, con qualche inevitabile margine di miglioramento, dettato anche da una normativa giovane e in divenire, anche l’economia italiana– ha chiosato Gianmaria Fragassi – sta accelerando verso la sostenibilità, di pari passo sia con la legislazione, europea e nazionale, sia con la crescente sensibilità dei singoli cittadini: non una “moda”, come si poteva forse inizialmente temere, ma una certezza consolidata. E lo stesso vale per gli investimenti istituzionali, la cui (breve) strada pare appunto già ben tracciata, con la finanza green destinata a imporsi sempre più, ormai, come il modello da implementare e perseguire nelle allocazioni».